Mai avrei pensato di trovare a Pinar del Rio, la città più occidentale di Cuba a 90 miglia marine dalle coste della Florida, una traccia del cardinale varesino Attilio Nicora, amico di gioventù e cofondatore, con Camillo Massimo Fiori e altri, del Michelaccio, originale periodico studentesco dell’alta Lombardia a cavallo degli anni cinquanta e sessanta. Allora vescovo di Verona – era il 1997 – aveva favorito lui la partenza di un sacerdote diocesano in qualità di missionario nella parrocchia principale di Pinar. La presenza di preti cattolici stranieri era stata infatti di nuovo autorizzata dopo la visita di Fidel Castro a Giovanni Paolo II avvenuta in Vaticano l’anno prima e poi ricambiata il 20 gennaio 1998 con un viaggio che decreterà la fine dell’isolamento internazionale cubano.
Quel piccolo sacerdote di Pinar che veniva dalla campagna veronese era stato il primo dei molti – non solo italiani naturalmente – che negli anni successivi avrebbero contribuito con il loro impegno a rianimare il mondo cattolico ibernato dalle misure illiberali e repressive del castrismo maturate soprattutto nel primo decennio rivoluzionario quando vennero abolite le scuole confessionali, fu impedito l’accesso ai media, si vietarono le manifestazioni religiose pubbliche, si discriminarono i cattolici negli studi e nelle professioni. Una maggiore e più libera presenza nella società della Chiesa cubana e delle organizzazioni laiche, pur tra diffidenze e malumori, contribuì a lenire, con gesti di solidarietà organizzata, le gravissime difficoltà di quegli anni segnati dalla chiusura da parte di Mosca dei rubinetti dei fondi a perdere pompati per un venticinquennio nell’avamposto socialista dei Caraibi. Tributaria nei confronti dell’ex Unione Sovietica di gran parte dei beni di consumo, l’economia cubana, già semi asfissiata dall’embargo Usa, conobbe una lunga e drammatica crisi che il lider maximo avrebbe chiamato “periodo especial”. Una transizione infinita e dolorosa scandita da un’austerità ferrea, da fughe di massa su barche e zattere verso le coste americane, e da un ulteriore irrigidimento nei confronti dei dissidenti scandito da alcune condanne a morte e relative esecuzioni. Nel nome del nazionalismo, dell’indipendenza e del socialismo.
Una stagione che si chiuderà, almeno parzialmente, nel 2008 con la definitiva uscita di scena di Fidel e il potere affidato al fratello Raul che avviò un processo di liberalizzazione economica fondato sulla libera circolazione dei dollari e la privatizzazione dei servizi turistici. Oltre ai “ristoranti particular” così chiamati perché gestiti da famiglie, alcuni già timidamente presenti a fine anni novanta, la Cuba di oggi conosce alberghi a gestione privata, Bed and Breakfast e addirittura alcuni timidi embrioni di villaggi turistici. Come dire che i “nuovi ricchi” isolani sono quelli che in qualche modo hanno a che fare con il turismo. Per gli altri poco o nulla è cambiato, come testimonia chi vive dentro la realtà cubana di oggi, salvo la possibilità di poter ottenere il passaporto, un documento proibito negli anni di Fidel.
Lui, il padre della rivoluzione del ’59, l’amico fraterno del Che continuava tuttavia a guardare con diffidenza le aperture del fratello convinto fino all’ultimo del suo sogno rivoluzionario, della sua utopia egualitaria. Elementi di giustizia e progresso sociale in effetti il castrismo li ha sedimentati in modo duraturo nella realtà cubana affrancando la popolazione dall’analfabetismo endemico degli anni del dittatore Batista; promuovendo e garantendo servizi sanitari per tutti di buon livello; evitando che l’isola conoscesse, pur nella povertà generalizzata, la violenza diffusa, il degrado e le lacerazioni sociali evidenti in altri paesi dell’ America centrale.
Nell’ora della sua morte centinaia di migliaia di cubani hanno avvertito un sentimento di perdita, di abbandono, di solitudine. Con lui, piaccia o meno, se ne è andato un padre della patria spesso scomodo, duro e incomprensibile ma comunque un padre. Diversamente non si spiegano il dolore e la commozione di massa, le interminabili code in piazza della Rivoluzione per salutare le sue ceneri. Come del resto accadde a Santa Clara il 17 ottobre 1997 quando la città intera si strinse attorno ai resti di Ernesto Che Guevara e di sei suoi compagni di guerriglia per accompagnarli al grande mausoleo della Rivoluzione. Dove vennero tumulati vent’anni dopo essere caduti sulle montagne della Bolivia.
Comunque lo si giudichi, Fidel Castro occupa un posto di rilievo nella storia della seconda metà del novecento. Sarà compito degli storici cercare di chiarire le ragioni che hanno consentito al dittatore caraibico di rimanere in sella per mezzo secolo pur scontrandosi ripetutamente con la super potenza Usa e perdendo, strada facendo, il sostegno della Russia sovietica giudicato da tutti gli osservatori vitale per il prosieguo del suo tentativo rivoluzionario.
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