È finita una campagna referendaria molto aspra, a volte troppo polemica e perfino irresponsabile, eppure credo che sia servita ad avvicinare alla Costituzione persone che ne avevano solo sentito vagamente parlare. Dire che il referendum ha spaccato in due l’Italia è perlomeno esagerato. Le profonde e diverse divisioni politiche erano presenti da molto tempo e proseguiranno dopo il 4 dicembre. Facile replicare a chi è tentato dall’astensione per i toni sgradevoli della campagna (compresi alcuni giornalisti) che si vota sulla riforma e non su come è stata condotta.
Non sono mancati certamente i paradossi. Il più curioso e divertente è stato il ricorso contro i quesiti del referendum che riproducono esattamente il titolo della legge di riforma su cui anche il No aveva invano cercato di raccogliere le 500.000 firme necessarie. I contenuti delle domande sono coerenti, chiarissimi: il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi, la soppressione del Cnel, la revisione del rapporto fra Stato e Regioni.
Sul primo punto, la Commissione del presidente del Consiglio Enrico Letta, richiesta dal Parlamento e composta da 42 “saggi” espressione di tutte le forze politiche disponibili, aveva terminato il suo lavoro con queste esatte parole: “Opinione unanime a favore del superamento del bicameralismo paritario con due ipotesi, il bicameralismo differenziato e il monocameralismo. È largamente prevalsa l’ipotesi di attribuire al Senato la rappresentanza degli enti territoriali e alla Camera il rapporto fiduciario e l’indirizzo politico”. Ciò che è stato puntualmente attuato.
La riduzione del numero dei parlamentari è incontestabile: da 950 a 730 di cui solo i 630 deputati con indennità. Ma il calo dei costi non si ferma qui. Ci sarà l’immediata diminuzione degli stipendi dei consiglieri regionali di molte Regioni mentre l’abrogazione definitiva delle provincie significa che gli enti intermedi (nelle regioni dove sono necessari come in Lombardia) saranno gestiti dai sindaci e dagli amministratori comunali in carica. In questo modo si toglie spazio vitale ad un diffuso e dannoso semi-professionismo politico che poi cerca posti al sole nelle municipalizzate e in mille società pubbliche che vengono tenute in vita apposta per questo.
La soppressione del Cnel, del tutto inutile, è un fatto inconfutabile e la revisione del rapporto Stato-Regioni rappresenta una necessità impellente. Abbiamo oggi un policentrismo istituzionale anarchico che deve trasformarsi in un funzionale sistema regionalistico ed autonomistico rispondente al principio di sussidiarietà che abbia al centro i diritti sociali dei cittadini e non l’interesse delle classi politiche regionali.
È bene ricordare che la possibilità, attribuita esclusivamente alle regioni virtuose, di acquisire maggiore autonomia e il potere (messo in Costituzione) di commissariare le Regioni e i Comuni in dissesto finanziario erano richieste partite dalla Lombardia e totalmente accolte. Vorrei aggiungere che nello Statuto di autonomia di Regione Lombardia, accanto alla “collaborazione e integrazione tra Regioni padano-alpine”, avrei voluto mettere la norma che le autorizzava a dotarsi di organi comuni di guida. I giuristi-consulenti me lo avevano sconsigliato per dei consistenti dubbi di incostituzionalità. Problema pienamente risolto con l’ultimo comma dell’articolo 117 della riforma.
Nessuna legge è perfetta ma se non si comincia ad abbattere il muro della resistenza al cambiamento siamo condannati a vivere in un sistema politico-istituzionale che, da vecchio qual è oggi, diventerà decrepito.
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