Il destino di dipinti, sculture, film e composizioni musicali prende vie diverse rispetto alle originarie intenzioni degli autori. Alcune opere divengono agli occhi del pubblico e della critica un’icona riconoscibile di un’epoca e di un luogo; ma quell’icona dura e vive solo in quanto in essa si riconoscono e stratificano letture diverse e spesso compossibili, anche quando tendenzialmente in reciproco contrasto. I significati stratificati nel tempo divengono una tradizione che persiste, e però essi si prestano a una continua reinvenzione che quei significati moltiplica e mescola.
Qui vi propongo un minuscolo percorso di fenomenologia della percezione: uno strumento che fa da appoggio, insieme a tanti altri, all’interrogazione autobiografica, a partire dalla domanda più elementare: «Cosa vedo?». A titolo di esempio scelgo un dipinto idoneo, American Gothic, il solo capolavoro di Grant Wood (1891-1942). Realizzato nel 1930, da sempre conservato all’Art Institute di Chicago che lo premiò e acquistò su pressione di un acuto finanziatore, il dipinto è esibito in questi giorni per la prima volta in una mostra in Europa, all’Orangerie di Parigi.
Senza quest’opera il nome di Wood sarebbe stato noto a pochi appassionati nello stato dello Iowa e dintorni. Wood non fu propriamente un grande pittore. Iniziò come autodidatta, attratto dalla fotografia americana di fine ‘800. Giunto a Parigi e a Berlino per darsi a una vita bohémien, incontrò l’arte altotedesca e fiamminga, il pointillisme della Grande-Jatte di Seurat e il movimento berlinese della Nuova Oggettività.
Riprese a formarsi. Tornato negli Stati Uniti, visse isolato con la sorella e la madre. Nel suo oscuro cercare una via espressiva originale, prese le distanze dai due più celebrati maestri della pittura americana di allora, Edward Hopper e Ben Shahn. Si volse verso uno stile da lui definito regionalismo, una forma di realismo rappresentato non già dalla solitudine o dai conflitti del mondo metropolitano in rapida espansione, ma dalla lunga e solida durata delle componenti fondative dell’America rurale: anzitutto la laboriosità, il rigorismo, lo spirito puritano, i vincoli familiari. In assenza di spiccati e originali mezzi espressivi, gran parte della sua opera manifesta una visione naïf dell’arte, alimentata da un’affettività peculiare per i luoghi molto più che per le persone. American Gothic è il tipico capolavoro occasionale, che diviene tale perché travalica la poetica specifica dell’autore, che di per sé lo vincolerebbe a un retroterra altrimenti provinciale, e nel contempo ne sintetizza in modo creativo e felicemente rielaborato le influenze ricevute.
È tipica delle arti visive la capacità di ospitare dentro i loro temi, segni e simboli, vari strati di memoria collettiva, che costituiscono un’icona «già vista» e «già rielaborata» tanto dagli autori quanto dai fruitori, ma sempre rivisitabile. Ma American Gothic è così potente nei suoi esiti da essere ben presto divenuto una sorta di autobiografia della nazione, un’occasione per il suo specchiarsi e riconoscersi, non necessariamente in modo favorevole e compiaciuto, anzi…
È da ottant’anni un peculiare autoritratto degli Stati Uniti, quali furono sin dall’epoca dei pionieri, l’indipendenza, la guerra di secessione, la crescita, l’uscita dall’isolamento, i conflitti razziali e la grande modernizzazione: gli Stati Uniti che si concepiscono eterni, e tali in fondo sono ancora, al di là dei cambiamenti intervenuti. È ovvio vedervi in questi giorni il popolo che, seminando sgomento e panico in noi europei occidentali, ha votato Trump e si è riconosciuto in lui.
L’opera mostra uno scorcio del paese di Eldon nello Iowa: il paesaggio dei centri rurali tipico del Midwest. In un ambiente verdeggiante, in posizione isolata, affiancata a destra da un cascinale per il fieno e gli animali, sorge Dibble House, un tipico edificio in legno, con un colonnato al piano d’accesso e una finestra goticheggiante nel piano superiore della facciata. Un’edilizia seriale, che viene ricordata come tipologia ‒ Carpenter, l’architettura del carpentiere ‒ ma in modo anonimo.
Dinanzi a quella casa pretenziosa, come la definì anni dopo l’autore, facilmente tratteggiabile su un taccuino, una volta tornato a casa Wood immaginò due possibili abitanti, e li trovò nella sorella Nan, di due anni più grande, e nel suo dentista, il dottor Byron McKeeby, allora sessantaseienne. La riproduzione dei due personaggi è precisa, analitica, perfettamente a fuoco e frontale, «in posa», con lo sguardo fisso nell’obiettivo, come si usava nelle fotografie che l’autore aveva apprezzato nella sua giovinezza. Soltanto la tenue influenza di Seurat sembra sgranare alcuni dettagli riconoscibili nella profondità di campo.
Così Wood scrisse del quadro a una conoscente: «Ho voluto dipingere due personaggi di una piccola città, un padre e sua figlia, non necessariamente due contadini. L’uomo potrebbe lavorare in una piccola banca o avere un magazzino di legname, prega qualche volta in chiesa e la sera quando torna a casa, va a lavorare il suo campo e a badare alla mucca. La ragazza è la sua figlia maggiore, su di lei non ho immaginato altro, se non che fosse rigorosa come il padre, ma quella ciocca di capelli fuori posto è la prova che anche lei è comunque umana». Un rapportarsi al mondo moralistico, austero e severo, spontaneamente conservatore ‒ al limite di un immobilismo assoluto, vissuto e ricevuto come un normale, anzi ottimale «stato di natura» ‒, ma non del tutto privo di affetti.
Il carattere familiare del ritratto fa pensare allo stato di vedovanza del padre e a quello di nubilità della figlia. Nella finzione pittorica i due si fanno ritrarre nella quotidianità del loro abbigliamento domestico. Il padre è colto in un momento di sosta nel mentre si occupa della sua piccola fattoria. Indossa degli occhiali tondi sorretti da una semplice montatura, una camicia dal collo a listino, una salopette in jeans e un comodo giaccone scuro. Nelle forti mani stringe un forcone, la cui linea stilizzata viene ripresa, in successione verticale, dalle pieghe della salopette, dall’ombra sulla porzione visibile della camicia, dai lineamenti del volto e dalla cornice della finestra al primo piano: una scelta che accresce l’ambivalente carattere enigmatico del quadro. La mano in penombra in basso è il punto d’appoggio compositivo del dipinto: i personaggi, la casa, il paesaggio, il vuoto. Veniamo condotti a una lettura verticale che coesiste con la frontalità della veduta.
A propria volta la figlia sembra uscita apposta per farsi ritrarre, mescolando accuratezza e sciatteria, pretenziosità e provincialismo. Nel suo abito scuro con un colletto morbido impreziosito da un cammeo, raggiunge il padre un po’ più in ghingheri di lui, come si confà ad una signorina in attesa di marito; ma viene inesorabilmente tradita da un grembiule leggero, geometricamente punteggiato e orlato in modo banale, che sovrasta l’abito «buono». Per farlo ha lasciato la cura della casa, che sembra minuziosa, a giudicare dalle piante grasse che si scorgono sul lato sinistro della veranda.
Nessun segno d’affetto intercorre tra i due. Entrambi hanno un espressione glaciale, concentrata su di sé e triste: quella del padre appare ferma e volitiva, ma priva di luminosità, sottomessa ad un destino per il quale non si conoscono alternative e percorsa da un flusso sommerso e inconfessabile di infelicità; più corrucciata e risentita quella della figlia, come se dovesse accettare un destino di cui ben conosce i limiti, ma per il quale non ha saputo o potuto costruirsi delle alternative. La minuziosità di lei ci si rivela come una pignoleria incattivita, incistata, autopunitiva e vagamente nevrotica.
Sin dal principio l’opera apparve controversa. Più che a una relazione filiale, gli osservatori inavvertiti furono e tuttora sono inclini a pensare ad una coppia diseguale per età ma non per condizione sociale e per mentalità. La rigidità dei rapporti interpersonali nel contesto puritano si fa percepire come una freddezza di fondo, un’anaffettività tanto severa da apparire agghiacciante. I giornali dello Iowa riportarono numerose proteste di persone che non si riconoscevano in quei «puritani fondamentalisti, magri e lugubri».
L’intento di Wood era sottilmente apologetico. La crisi economica aveva cominciato a mordere anche nelle campagne. Ma nel dipinto l’America contadina ostentava la saldezza e la serietà dei suoi valori, una forza collettiva e interiorizzata che le avrebbe consentito di riprendersi con la propria laboriosità e la solidità dell’istituzione familiare, dove gli affetti passano in secondo piano rispetto agli obiettivi e ai doveri condivisi. Quel che avrebbe dovuto venire percepito come il punto di forza della società americana nel pieno della crisi, apparve come una diagnosi lucida e spietata circa un mondo desueto, un ventre profondo e molle ma freddo, arido, isolato e destinato al declino.
Cosa deve ricavare il lettore da questo excursus? Semplicemente alcuni suggerimenti. Nel primo approccio alla visione di un’opera, l’osservatore deve tralasciare ogni armamentario erudito, per interrogarsi anzitutto circa l’oggetto che vede e circa i significati che esso gli comunica o gli permette di scoprire in se stesso. Guardare un’opera d’arte equivale a gettare uno sguardo su uno o più mondi, anche remoti, di cui l’osservatore deve essere partecipe. Il passo successivo riguarda gli aspetti costitutivi, strutturali, compositivi dell’oggetto osservato: qui lo spettatore è chiamato a riflettere sulle modalità in cui la sua percezione viene guidata, e non solo dall’autore ma anche da una serie di memorie iconologiche condivise e già sperimentate.
Solo infine entrano in gioco le informazioni storiche: ma nemmeno in questo caso come dati neutri e oggettivati, ma come rispecchiamento, distanziamento e intima comprensione. Buona lettura.
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