Dmitrij Šostakovič (1906-1975) è stato contemporaneamente uno dei più grandi compositori della prima metà del ‘900, un valente pianista e una delle figure più controverse tra gli artisti dello stesso periodo. Fu un autore prolifico e poliedrico, e un uomo multiforme, al limite dell’indecifrabilità.
Come compositore, frequentò le forme classiche – la sinfonia, l’opera, le partiture corali, la musica da camera – e nello stesso tempo percorse le vie per l’epoca più innovative, come il jazz e le colonne sonore per il cinema. Scrisse su commissione assecondando la retorica richiesta dal regime staliniano e sperimentò in libertà. Tra l’estenuante Settima Sinfonia, scritta nel 1942 per inneggiare alla resistenza di Leningrado, e gli impervi Quartetti per archi e i due Trii, corre un abisso. Un ascoltatore attento ma non informato potrebbe pensare a due compositori diversi. Di lui si è detto: «Tanti autori in uno solo».
Con la tirannide comunista Šostakovič ebbe sempre rapporti difficili. Stalin e Ždanov dettavano i rigidi canoni estetici da seguire. Tuttavia il compositore non ebbe scontri aperti né con loro, né con il PCUS, né con l’Unione dei Compositori; e non subì le persecuzioni inflitte a moltissimi altri artisti, scrittori, scienziati e filosofi. Più semplicemente, la sua musica entrò in contrasto con i canoni imposti a forza dal regime. Šostakovič fu denunciato due volte per altrettante composizioni, nel 1936 e nel 1948. Nel 1936 fu Stalin in persona a bandire la sua unica opera lirica, Una Lady Macbeth nel distretto di Mcensk, che aveva già riscosso grandi successi di pubblico in oltre duecento rappresentazioni. «Caos, non musica», scrisse sulla Pravda il despota (ma l’articolo fu steso da un suo collaboratore) due giorni dopo aver assistito alla rappresentazione.
Morto Stalin, le sue opere furono riabilitate durante il breve «disgelo» voluto da Chruščëv. Nell’era brezneviana fu ammesso al Soviet Supremo e divenne ambasciatore della cultura sovietica nel mondo. Pubblicamente non fu mai un «dissidente». I suoi carteggi – in parte tradotti anche in italiano – e i suoi appunti appaiono contraddittori, a seconda dei destinatari o del tono delle riflessioni. C’è sempre un lato che sembra tenuto per sé. Ma – va detto subito – queste contraddizioni non sono attribuibili alla malfamata e infamante categoria dell’«opportunismo», non per nulla sfruttata cinicamente da Stalin per colpire i suoi oppositori.
Šostakovič non fu propriamente né un sostenitore del regime, né un oppositore palese. Come i neutralisti italiani davanti al primo conflitto mondiale, navigò tra il «non aderire» e il «non sabotare». Sicuramente dello stalinismo fu vittima, almeno come limitazione, o meglio amputazione, della sua libertà di ricerca. Nell’isolamento culturale in cui viveva la Russia comunista dopo la distruzione sistematica delle varie avanguardie artistiche già intrapresa tra il 1919 e il 1925, ciò significava anche una limitazione della libertà di alimentazione creativa attraverso l’accesso alle composizioni di autori contemporanei non russi. Ma, seppur vittima, condusse una vita ugualmente privilegiata. Privilegi da nulla, per noi abituati a ben altro. Non doveva fare la fila per comprare le uova, il pane e qualche fetta di pancetta scadente, come accadeva alla grande maggioranza della popolazione. Poteva disporre di un appartamento per sé e la propria famiglia, non di una camera in un piccolo appartamento in condivisione con estranei. Avrebbe potuto a un certo punto lasciare la Russia. Avrebbe avuto gloria, libertà ed enormi privilegi. Ma non lo fece, per mancanza di motivazioni. Si sarebbe sentito smarrito nella condizione di straniero.
Per le nostre ordinarie categorie mentali, Šostakovič sfugge a ogni definizione. C’è qualcosa di lui che non afferriamo. Abbiamo avuto la fortuna di non conoscere dall’interno le mostruosità e le deformazioni antropologiche che il comunismo realmente esistito impose alla stragrande maggioranza della popolazione sovietica. La lettura delle innumerevoli fonti scritte aiuta a immaginare, ma non a comprendere a fondo. Come collochiamo Šostakovič nel suo tempo? La sua fu una vita sul limite, in una terra di mezzo che gli consentì un’abbondante ambiguità ma non altrettanto un’ubiquità. La scelta di Šostakovič (ammesso che sia stata una scelta reale) fu una strategia di sopravvivenza. Tutti i popoli sotto il tallone sovietico tiravano avanti con strategie di sopravvivenza: intellettuali, operai, contadini. In quella terra di mezzo il nostro compositore non poteva varcare né una soglia né l’altra. Poteva soltanto vivere più vite, nascondendosi, assumendo parti mai proprie, e affidando la rivelazione di se stesso soltanto alla musica, quando si sentiva libero di comporre a suo piacimento.
A poco vale applicare alla sua vicenda delle categorie morali. Fu un «vigliacco»? È probabile. Aveva paura ed era convinto che non l’avrebbe scampata. Si racconta che per anni, temendo di essere condotto alla Lubjanka, dormisse vestito di tutto punto con una valigetta pronta per una detenzione di pochi giorni. E anzi, per molte albe consecutive (l’ora in cui il KGB passava a prelevare i «nemici del proletariato»), si fece trovare già in strada. Per sua fortuna non passò nessuno. Un’altra volta fu accusato da uno zelante funzionario del KGB di essere stato un testimone di un complotto contro Stalin. In cambio della salvezza avrà un giorno di tempo per mettere su carta nomi e luoghi. Šostakovič non ce la fa: le sue «mani non pianistiche» sono così pesanti che non riescono a scrivere nulla. Alla fine decide che un colpo di pistola al momento dell’arresto sia la soluzione migliore. Ma anche in quel caso non si fece vivo nessuno: il funzionario, nel frattempo, era stato fucilato sui due piedi alla Lubjanka!
Per capire Šostakovič dobbiamo sentire su di noi il macigno opprimente e ansiogeno del terrore staliniano. Poteva toccare a chiunque: anche a chi non aveva fatto nulla. Il terrore funziona se è gratuito, cieco e non omette nessuno. Nemmeno il nazismo si spinse a tanto. Ma dobbiamo chiederci se in quelle condizioni di terrore avesse senso esporsi apertamente al martirio e sparire di colpo con tutta la propria famiglia. Evidentemente no. Quell’eroismo estremo non sarebbe servito a nulla. Milioni di russi annegarono l’ansia in fiumi di vodka. Šostakovič non si stordì né volle abbandonarsi al senso di vuoto. Ritenne molto più saggio comporre la propria musica nelle maglie, ora ampie e ora strettissime, consentite dai rigidi parametri della «cultura» imposta dal partito, che voleva raggiungere le grandi masse esattamente come la pubblicità di un dentifricio, solo che il prodotto da vendere era il culto della personalità, del partito unico e del grande impero panrusso. Una menzogna istituzionalizzata, proprio come la pubblicità.
Anche la personalità di Šostakovič merita un approfondimento. Non aveva avuto un’infanzia e una giovinezza felici. Era rimasto presto orfano di padre. La madre gli risultava ossessionante. Voleva che fosse un «buon comunista». La musica fu ben presto il solo rifugio per sfuggire alle sue nevrosi, alle superstizioni, le fobie, l’insonnia. Nei giorni di concentrazione compositiva o di studio, si immergeva così profondamente nel lavoro e nel suo mondo di suoni al punto da rasentare l’autismo. Fu un uomo probo, semplice, che aspirava alla notorietà e all’apprezzamento delle sue opere senza mettersi in mostra come individuo. Accettò il suo stare scomodamente nel suo tempo e in quello spazio come un destino prescritto, da cui non avrebbe potuto fuggire. A volte la scelta più coraggiosa è uno stoicismo profondo che oltrepassa ogni paura e ogni ambizione: il coraggio di una rassegnazione che chiede per sé solo di continuare a vivere per uno scopo. Per Šostakovič quello scopo fu comporre. A quel fine sacrificò tutto. Invitato a dirigere la sua Quinta sinfonia al Madison Square Garden a New York di fronte a 15.000 spettatori entusiasti, accettò di leggere un discorso in cui esecrava la musica contemporanea in nome della popolarità dell’arte. Ogni vita ha un prezzo. Per Šostakovič il destino ne predispose uno molto alto. Milioni di russi ne ebbero di peggiori. Oggi ci resta la sua musica. Parte è da buttare; ma più spesso incontriamo dei capolavori. Cosa possiamo chiedere di meglio?
Chiudo con due suggerimenti di lettura: la biografia romanzata di Julian Barnes, Il rumore del tempo, Einaudi, 2016; e un’antologia epistolare, Šostakovič, Trascrivere la vita intera. Lettere 1923-1975, a cura di Elizabeth Wilson, Saggiatore, 2006.
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