Nella cultura popolare la carriera ha sempre rappresentato un punto di forza e uno di arrivo. Chi arrivava ai gradi più alti della professione era considerato, riverito, amato, temuto, stimato, rappresentava un vanto per la famiglia e la comunità. Noi siamo nati e cresciuti nella cultura dei primati, dove contava chi riusciva a prevalere sugli altri, chi poteva imporre la sua personalità, gettando sul campo le velleità di un’ambizione correlata a un podio, a un comando, a una poltrona di velluto, a un profilo alto, talmente alto da non consentire al giudizio popolare di avere un peso, anche solo di natura prettamente democratica.
Si è sempre parlato moltissimo di leggi, regole, costituzione, democrazia, ma molto poco di uomini, donne, bambini, persone, cittadini, si è parlato forse troppo poco di corpo e di anima, di interiorità e di esteriorità, di prosa e di poesia. Si è dato molto spazio all’economia, come se, anche solo con un’economia stabile, si potesse vivere felici sempre e ovunque.
In molti casi abbiamo fatto dipendere la felicità familiare da un titolo, un simbolo, una carica, dal guadagno, dagli investimenti finanziari, dal ruolo societario conquistato, paragonando la vita a una vetta nepalese e il cammino per percorrerla a una gara a chi diventava più ricco, più forte, più amato, ammirato, stimato e apprezzato.
Gli uomini si sono lasciati fortemente attrarre dai simboli del potere, hanno abbracciato il mito del benessere come strumento di redenzione dalla miseria e dalla povertà, salvo poi accorgersi che il benessere è qualcosa che scivola, sfugge, inquieta, sballa, non dà sufficienti garanzie di vita beata, anche quando è appoggiato da una carriera esemplare o dal fiuto dell’affermazione.
Ci siamo dimenticati che la natura umana non ama l’euforia fine a se stessa, ma piuttosto la continuità, la coerenza, il silenzio, la pacata comprensione di un ordine che vola dritto verso la coesione, la comunione d’intenti. Nella lotta per conquistare la vetta ci si siamo spesso dimenticati di quelli che erano in cordata con noi, che aspettavano il nostro incoraggiamento, la nostra buona parola, la nostra fermezza per continuare con lo stesso amore e che, come noi, guardavano il cielo con la speranza di ritagliarsi un piccolo spazio di eternità.
Chi gestiva il comando doveva essere rispettato, riverito, era il leader indiscusso di un’intelligenza superiore che sapeva vedere dappertutto, approfondire parlando il linguaggio di una conoscenza magica e misteriosa. Quando la democrazia ha diviso il mondo in vincitori e vinti, in maggioranze e minoranze, ha reciso di netto il mondo delle idee e dei contributi umani, è come se avesse decretato una radicale divisione in classi, predisponendo un futuro di lotte e antagonismi per la conquista della vetta del potere.
E così è stato. Le maggioranze hanno sconfitto le minoranze, le hanno costrette a una subalternità passiva, come se la minoranza fosse una colpa da dover pagare per non aver vinto. Quante minoranze inutili, quanti inutili sacrifici e impegni e abnegazioni per dimostrare che le divisioni sono dettate da un gioco creato per restringere il numero dei depositari.
Chi ha vissuto in minoranza sa quanto sia infido lo sguardo della maggioranza, quanto sia inutile dimostrare il valore della libertà, del libero confronto, della collaborazione fattiva. Il mondo delle maggioranze è sempre stato piccolo, molto riservato, molto selettivo, molto pieno di sé, spesso incapace di cogliere il respiro affannoso di una volontà animata dal desiderio di raccogliere e appoggiare, di offrire la parte migliore per lo sviluppo della condizione umana.
Per anni abbiamo subito la dominanza di una cultura classista, nata e cresciuta su una visione di parte, predisposta a varie forme di dominio e di sovranità, senza che tenesse doverosamente in conto che ogni vita, anche se di minoranza, è un valore immenso, dono prezioso da valorizzare e proteggere, da ascoltare e valutare.
Per secoli siamo stati succubi di una storia che non ci è appartenuta, ma che abbiamo dovuto accettare anche quando non la sentivamo nostra, quando tradiva le nostre aspettative, la volontà di essere amati, compresi, aiutati ad essere protagonisti e non servi.
Si trattava di una storia predisposta e dominata dai poteri forti, quelli che non vedi mai e non senti, che navigano nell’ombra, facendoti immaginare la forza della bellezza proprio mentre la stanno distruggendo, quelli che usandoti ti fanno sembrare di essere libero e ascoltato, in grado di decidere del tuo presente e del tuo futuro, mentre invece il tuo futuro traballa sotto i colpi di intrighi ed egoismi senza fine.
La cultura è stata per molti il bastone di comando dell’intellighenzia, una grandissima fregatura per il popolo, un prezzo pagato per mantenere la soverchieria di personaggi baciati dalla ricchezza e dai privilegi. Si è parlato molto dell’importanza dell’istruzione, come se l’istruzione insegnata fosse l’unica via possibile di un’ emancipazione solidale, senza porsi il problema se fosse realmente il bisogno primario di chi viaggia alla ricerca di un’ identità che non sia solo figlia di nazionalismi esasperati o di uomini in carriera che hanno perso l’umanità.
La scuola non è mai di classe, è una palestra in cui si apprende l’esercizio della giustizia sociale, della legalità, della fratellanza, della ricerca, è un lento e straordinario cammino di redenzione dalle miserie umane, un viaggio organizzato alla ricerca di un’ identità forte, solidale, sicura. Scuola come attivazione di dinamiche umanitarie, di processi di apprendimento relazionali, di fili conduttori. Scuola di pensiero, di ricerca, di realismo e di produzione, di socialità e di confronto, di apertura sociale e di una libertà fondata sulla coscienza critica del mondo.
Non una scuola di carriere, ma di coscienza, non di reticenza ma di umanità, non di conoscenze imprigionate, ma di sorprese e stupori, una scuola capace di volare alta sulle attese di un mondo che non è più solo quello classista del latino e del greco, ma di lingue vive, di certezze presenti, di valori costruiti da chi vive la storia nella contemporaneità, nella bellezza del suo divenire lento, ma sistematico.
Più che di carriere pagate fior di quattrini la democrazia ha bisogno di uomini e donne capaci di reggere le condizioni di un mondo che si parla, si legge, si discute, si confronta, si studia, per aprire nuove vie, per affermare una volta di più la forza creativa di un’ intelligenza che trova in se stessa e negli altri i mille motivi per offrire il dono di un’esistenza piena, capace di aprire sempre di più lo scrigno della meraviglia umana.
Ogni epoca ha i suoi punti di forza, che mutano con il mutare delle persone, delle condizioni, delle situazioni storiche, politiche, sociali, religiose, non è umanamente possibile immaginare un immobilismo cronico, una condizione museale per soddisfare la perpetuazione di un potere che in molti casi non ha ragione di essere.
Il mondo va avanti, cambia, chiede nuove regole, le condizioni sociali non sono mai le stesse, sono in continuo divenire, le persone hanno nuove aspirazioni, esprimono desideri nuovi, diventa impossibile immaginare che il passato sia l’unica forma interpretativa e applicativa del nuovo che avanza.
L’elezione americana, per esempio, ha ampiamente dimostrato quanto sia mutato il costume popolare, quanto sappia ricercare fuori e oltre un passato per certi aspetti inadempiente e inconcludente, incapace di offrire anche solo l’idea di una dimensione convincente della condizione umana. Donald Trump si è dimostrato l’unica possibilità emancipativa di un mondo che ha perso per strada molti dei suoi valori permanenti, un mondo che ha bisogno di essere studiato, amministrato, indirizzato, perché le sue spinte non diventino occasione di lotte, guerre, antagonismi, ma di nuove e solidali forme di coesistenza civile, fondate sulla razionalità, sul buon senso, sul senso di responsabilità individuale e collettivo, su leggi che valgano davvero per tutti, su una politica che sappia guardare in faccia la realtà, leggerla e definirla, delinearla e servirla con decisione e onestà.
L’America dimostra che una stabilità castrata non funziona, impedisce l’evoluzione, la realizzazione, l’affermazione di principi e valori che sono la base autentica di un democrazia che abbia sul serio una funzione democratica di apertura e di sviluppo sociale, che abbia una forza dinamica al suo interno che le consenta di vivere appieno la realtà di un mondo sempre più complesso e bisognoso di attenzioni e di cure.
Forse anche l’Italia ha bisogno di vivere il suo sogno, ma per questo deve imparare a guardare con molto realismo dentro di sé, ha bisogno di rimettere in gioco la sua anima pensante vera, quella che va oltre i piccoli egoismi, le faide, le diatribe, le rappresentazioni inutili, è tempo che riprenda a pensare, ad attivare con decisione la sua missione, senza lasciarsi abbindolare da gestioni assurde, da profeti senz’anima, da perbenismi inventati per continuare a dominare, per gettare discredito su chi si impegna quotidianamente per ritrovare il bandolo di una matassa che ci è sfuggita di mano.
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