La vittoria di Trump ha sicuramente lasciato delle vittime “politiche” sul terreno e non solo Hillary Clinton, comprensibilmente travolta dalla sconfitta, ma anche un certo mondo che aveva scommesso “facile” su di lei ed è ora stato travolto. Politici, attori, uomini del jet set, giornalisti, commentatori: una lunga serie di folgorati sulla via di Washington.
I più contenti di tutti sono stati gli scommettitori veri che hanno guadagnato oltre 3 volte la posta perché alla chiusura delle urne il successo di Trump appariva ancora remoto e si sono quindi portati a casa i frutti di quello che – a posteriori – è stato un ottimo investimento.
Vincitori e vinti, dunque, ma clamorosamente stonati sono apparsi a posteriori molti politici europei – a cominciare da Renzi – che davano per scontata una vittoria democratica e si sono trovati spiazzati. Ingeneroso ricordare la figuraccia rimediata da chi – come la Mogherini, Hollande, la Merkel, Junker e tutto l’establishment europeo – si era spinto troppo avanti con i complimenti e gli abbracci con la Clinton? Sta di fatto che Putin può riprendere una sua politica che rischia di trovare spiazzata quella europea dove già la Gran Bretagna ha fatto sapere di andare per i fatti suoi anche e soprattutto in questa occasione.
Sul piano interno e in chiave referendum forse qualche italiano si è posto anche il problema di che credibilità dare a personaggi e giornalisti – tutti schierati per il sì – che forse non hanno capito molto delle cose americane oppure, più semplicemente, le hanno “lette” solo in chiave interna. Da che il dubbio che analoghe letture dei fatti le stiano facendo anche in chiave referendaria: è un aspetto che andrebbe approfondito.
Dovrà passare qualche anno per capire se il voto Usa sarà stato o meno “storico” come lo furono alcuni passaggi-chiave dell’ epopea americana con Lincoln, Roosevelt, Kennedy o lo stesso Obama, primo afro-americano alla Casa Bianca.
Emergono già due potenziali rivoluzioni: la probabile fine della “Dinasty” delle grandi famiglie politiche americane, in una sorta di intreccio dinastico che ha abbracciato prima i Kennedy e poi i Clinton (ma anche i Bush in campo repubblicano) e la sconfitta dei due grandi partiti storici, incapaci di identificarsi con i loro elettori.
Se i sondaggi hanno clamorosamente fallito è stato perché molti americani simpatizzanti di Trump non avevano avuto evidentemente il coraggio di dichiararsi ufficialmente con chi era disprezzato dai media, ma istintivamente si sentivano attratti da qualcuno che parlava finalmente un linguaggio semplice e di grande critica verso il gotha politico sia repubblicano che democratico.
D’altronde il 53% degli intervistati “democratici” si dicevano ostili alla candidatura Clinton (come il 47% dei repubblicani verso Trump) a conferma che il sistema classico delle primarie per la scelta dei candidati è forse superato, ma soprattutto che per emergere Trump ha usato un’immagine anticonformista e volutamente di rottura nel suo contatto con gli elettori.
È nato così un voto ribelle, trasversale a livello politico ma anche geografico e sociale con Stati interi che hanno rotto consolidati schemi del passato.
Girando gli Usa era facile incontrare gente non solo superficialmente critica su tutto, ma persone che visibilmente hanno visto ridursi il loro potere d’acquisto negli ultimi anni e sono preoccupate per il futuro.
Un fenomeno che in Italia cominciamo solo ora a percepire, ma la generazione dei quarantenni che cresce è più povera dei genitori e quella che segue si pone grandi dubbi sulle sue possibilità di crescita. Aggiungeteci milioni di americani con la casa di proprietà a rischio per il crollo del suo valore e l’impossibilità a pagare le rate dei mutui, ma – mentre le banche sono state aiutate dal governo – milioni di persone non pagano perché sono rimaste senza lavoro per i contraccolpi della crisi finanziaria nata e cresciuta sotto Obama, in un paese “vecchio” per servizi e infrastrutture.
Oggi Bangkok è molto più moderna di New York, Shangai più organizzata di Los Angeles, la metro o gli aeroporti di Seoul o di Tokyo funzionano meglio che non l’intasato JFK o le vecchie carrozze argentate dei treni americani che – come gli scuolabus gialli – sembrano immutate da decenni.
Quando Trump è venuto concretamente a proporre lavoro per costruire nuove autostrade ha aperto una breccia nel cuore di milioni di pendolari bloccati dal traffico ed è stato ascoltato, così come Roosevelt vinse nel ’35 lanciando il New Deal dopo la crisi del ’29.
Troppi americani sono sicuramente poco attenti ai problemi del mondo, ma quando Trump urlava “legge ed ordine” milioni di loro – bianchi o neri non importa – pensavano ai poliziotti trucidati a Dallas, ai tre vice-sceriffi uccisi di recente, alla riforma in peggio di un sistema sanitario che se ha dato una prima assistenza a 20 milioni di poveri l’ha fatta però peggiorare per moltissimi altri.
E allora contava poco che Hillary si presentasse con a fianco attori, cantanti e il marito ex presidente, che Bush jr. dichiarasse di non amare Trump, che Obama si schierasse per la Clinton con una esposizione personale mai vista in passato e che forse ha più danneggiato che aiutato la candidata democratica.
L’americano-medio che vive nelle piccole città è preoccupato per il suo lavoro, dal disordine e dall’immigrazione selvaggia, tiene le armi in casa e si chiede come difendersi da una piovra grigia e impalpabile – Trump l’ha identificata benissimo – che controlla le banche e l’economia, le borse e i mercati, le speculazioni finanziarie e i tassi di interesse.
Certo che l’ “upperclass” ha votato la Clinton super appoggiata dai media, ma proprio per questo è montata una rabbia profonda tra moltissime persone cui pareva assurdo che si perdesse tempo a discutere per le battute volgari di un candidato anziché andare a chiarire quali fossero i veri rapporti tra la Clinton e la grande finanza, per di più sentendosi insultati ad agosto da quel “Chi vota Trump è un cretino” che forse ad Hillary è costa l’elezione.
Possiamo chiamarlo neo-qualunquismo, ma non dimentichiamo che l’americano di oggi è nipote di chi sparava al vicino se passava il suo confine o di chi era arrivato immigrato povero e pian piano ha costruito una sua nicchia ed oggi è pronta a difenderla guardando male chiunque venga ad insidiarla.
Il caso della Florida con gli ispanici in massa a votare (forse) la Clinton ha portato moltissimi a girarle le spalle sentendosi minacciati proprio dall’ondata di messicani e sudamericani che hanno letteralmente debordato negli Usa, mentre il discorso del “muro” di Trump era demagogico ma accattivante, immediato e concreto.
Gli americani avevano un disperato bisogno di credere e di nuovamente tornare a sognare. “Nessun sogno è troppo grande” è stata la prima battuta di Trump dopo il voto: un concetto che ci può apparire irreale, ma “Donald” lo ha capito e interpretato benissimo.
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