Quali sono i nostri caratteri di varesini, quale la nostra identità, quali le nostre radici? A questi interrogativi s’è cercato di rispondere scorrendo un articolo pubblicato dal quotidiano La Prealpina. Il titolo dell’articolo in questione, firmato da Matteo Luigi Bianchi, sindaco di Morazzone e segretario provinciale della Lega Nord, ha identificato nel linguaggio o meglio nell’idioma, come citava il titolo giornalistico, uno dei caratteri distintivi, forse il principale, accomunando la parlata in uso dalla Svizzera italiana fin quasi a Pavia, “se proprio vogliamo dirla tutta”, ha scritto Bianchi, come elemento collettivo e generale. Oltre a ciò, ad avvalorare la tesi – o l’ipotesi – alcune considerazioni e citazioni di carattere storico: dagli abitanti Insubri via via ai giorni nostri, passando per il Barbarossa, per l’impero austro-ungarico (ndr: cioè prima del Risorgimento) e per Benito Mussolini, che nel 1927 volle istituire la provincia.
È chiaro che in un articolo di due o tre cartelle non si possono esaurire (e forse nemmeno accennare) le risposte a quesiti tanto ambiziosi. La storia e anche la storia del linguaggio sono materie così complesse che, da sole, non bastano a definire il quadro, che è e resterà sempre lacunoso, per quanto si cerchi di dargli configurazioni. Si parte dagli insubri, per esempio, e si tace dei primitivi palafitticoli che due o tremila anni prima abitavano le sponde del lago che in seguito, nei millenni successivi, sarebbe stato chiamato “lago di Ghivirà” e, infine, lago di Varese. Chi erano questi uomini del Neolitico? Liguri che alcuni considerano popolo proveniente dall’Africa o chi altri? Salti nella storia (a parte la storia scritta) di tremila anni non sono consentiti o sono molto vaghi o addirittura inducono all’errore per tracciare con certezza un’identità.
E anche per quanto riguarda il linguaggio, che dovrebbe rappresentare, l’elemento costitutivo e definitivo, si è piuttosto superficiali, perché l’isoglossa della parlata, diciamo così, lombardo settentrionale, cioè la linea che la separa da altre parlate si estende ben oltre Pavia. Nulla si dice, per esempio, tanto per restare nel Varesotto, del dialetto parlato nel Bustese, che ha anche cadenze tracce liguri; nessun riferimento si fa al latino, che è stata per centinaia di anni la lingua dominante di gran parte del territorio italiano e non solo. Solo per dare un po’ di conto: Paolo Diacono, che nell’ottavo secolo scrisse la storia dei longobardi (da cui anche il nome di Lombardia), scrisse in latino.
Con ciò non che si voglia negare in assoluto una comunanza di espressioni e di “idiomi”, ma si deve anche pensare che il nostro linguaggio di oggi, lingua italiana compresa, è in continua mutazione, e che i suoi cambiamenti sono stati tanti e tali da non consentire il tratteggio di un’identità così settoriale. E che parole dialettali e lingua italiana – nata in Sicilia e “perfezionatasi” in Toscana – si sono spesso intrecciate le une con l’altra fino a costituire un unico idioma principale, che è l’italiano.
Premesso, dunque, che non esiste un’identità di uomini diversi da altri uomini, biologicamente almeno, senza sconfinare nella finzione o – peggio – nel razzismo, sarebbe possibile solo indicare un’identità di paesaggio, che è ancora diverso tra Alpi, colline e laghi prealpini, brughiera, piane del Pavese… Sempreché, anche il paesaggio, possa essere conservato tale e quale.
Una rivendicazione autonomistica, anche da un punto di vista amministrativo, di coloro che vivono in questi territori – etnicamente e anche linguisticamente omogenei ad altri del resto d’Italia – sembra quanto meno difficile, considerata la matrice italiana, perché è sempre la lingua italiana a mettere il cappello su dialetti o idiomi diversi (è, del resto e per chiarirsi, lo stesso criterio usato dai linguisti), i quali si differenziano, per esempio, dagli abitanti dell’Alto Adige che parlano un “idioma” che ha sopra di sé un’altra lingua di carattere nazionale: il tedesco; oppure alcuni gruppi francofoni della Val d’Aosta che hanno la lingua francese come riferimento.
Anche la legge attuativa – per restare alle questioni dei linguaggi e degli idiomi – che disciplinò l’articolo 6 della Costituzione (“La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”), emanata nel dicembre del 1999, ovvero cinquantuno anni dopo la promulgazione della Costituzione, tenne conto di queste distinzioni di carattere pratico, che per altro risultarono già superate e in un certo senso obsolete all’indomani della stessa legge attuativa.
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