Ma, arrogante a chi? Arrogante è l’epiteto preferito, uno dei più usuali, che piace tanto a chi pratica lo sport del rompere tutto. A dire la verità, qualche tipo arrogante lo conosciamo, o lo abbiamo conosciuto, tutti.
E dunque sappiamo tutto di lui. Come ti guarda, come cammina e saluta, come si veste, quali auto, ristoranti e bar, posti di villeggiatura e amici predilige. Normalmente è uno che, come diceva l’antipatico a molti - ma magnifico attore Vittorio Gassman – ama circondarsi di “cafon-symbol”: la macchina grande, la villa grande, la barchetta a vela con una selva di alberi, e l’abito di alta sartoria, il telefonino ultimo grido, le scarpe color cognac inglesi lucidate a specchio, dal domestico naturalmente.
Insomma, l’arrogante è di solito anche cafone. E non è una questione di nobili natali, come dicono alcuni. Che si sia, o non si sia, di sangue blu e altolocate parentele, poco conta. Contano cuore e testa. Ebbene, un arrogante non ha né cuore né testa. Se avesse cuore non si metterebbe a gareggiare come un bambino confrontando il proprio tenore di vita con chi fa fatica a vivere, se avesse testa la userebbe per impegnarsi in migliori imprese che quella di dover sempre dimostrare di essere al di sopra degli altri.
Per arrivare al dunque, non sono stata da subito una simpatizzante di Renzi, non mi andava l’ insistenza nel voler mandare a casa Letta. Il ragazzo, come lo chiamano quelli che si sono sentiti e continuano a sentirsi in odore di rottamazione, mi pareva inizialmente di tono un po’ saputo. Poi l’ho visto, e l’ho sentito parlare, e ho capito: oltre che l’andatura dinoccolata di chi si porta appresso troppi centimetri d’altezza, la dentatura castorina evidenziata da Crozza, la pioggia di nei e l’occhio furbetto, bisogna lealmente riconoscergli un corredo di non comune intelligenza, volontà e forte determinazione, cosa che non guasta in tempi in cui si gioca solo a disfare. E poi pazienza e rispetto degli altri. Sissignore, il cosiddetto arrogante ha rispetto e pazienza da vendere. Prendiamo l’incontro da Mentana a La7 con Zagrebelsky.
L’attacco iniziale l’ha sferrato quest’ultimo. Si gonfiava come fanno i gatti, lo interrogava con voce e toni gelidi, lo teneva a distanza squadrandolo dall’alto per mangiarselo in un solo boccone al primo cedimento. Mi pareva un docente pre Sessantotto. Ne avevo incontrati di così all’Università Cattolica, ma era già l’inizio degli anni Settanta. Uno di loro si chiamava Gianfranco Miglio. Insegnava Scienza della politica e quando c’era lui in classe non poteva volare una mosca. Ma spesso succedeva che arrivasse a lezione con ben altro che un quarto d’ora di ritardo accademico. Anzi, a volte, molte volte, l’ideologo della Lega non arrivava proprio, mi sto ancora chiedendo il perché. Ricordo che un gruppo di studenti, che non ne poteva proprio più, firmò un giorno una petizione, in cui anch’io apposi la firma, perché rispettasse gli allievi che prendevano, loro, il treno di buon mattino proprio per essere puntuali alle lezioni. Ecco, con Zagrebelsky, quella sera con Mentana, m’è parso che la fetta di mondo accademico, ma non solo accademico, che avevo rifiutato, girando i tacchi per dirigermi alla Statale, dove mi laureai discutendo una tesi in diritto delle comunità europee con Fausto Pocar -poi divenuto presidente della Corte Internazionale dell’Aja- quel mondo vetusto, arruffato, persuaso solo di sé stesso, fosse ancora fermo lì. Ho provato un senso di freddo, di paura e tristezza.
Il ragazzo seduto di fronte a lui, invece, ha tenuto botta, ha usato grande rispetto, si è messo nei panni dell’allievo come l’altro voleva – “poi mi restituisce il libretto?”- non ha ceduto, ha usato testa e cuore, ha dimostrato di essere preparato, non solo per aver studiato perfettamente la materia, ma soprattutto per avere una migliore conoscenza del mondo e delle persone. Quasi la saggezza stesse dalla sua parte, più che dall’altra. Non solo più rispetto, e umiltà, ma anche più intuizione e spirito pratico. Alla fine ha strappato il miglior voto al professore, in imbarazzante confusione. Trenta e lode a lui.
L’ho visto ancora con Minoli tenere botta a uno dei nostri più bravi e smagati giornalisti. L’altro lo incalzava a ritmo serrato, con una raffica di domande e sguardo volpino. E lui preparato su tutto, paziente e voglioso di dimostrare non tanto di essere bravo, ma di adoperarsi per qualcosa in cui crede. Al punto di aver puntato tutto su quella riforma costituzionale che da altri è stata avviata e lui si è fatto carico di portare avanti. Per un Paese più efficiente, per un apparato statale più snello da muovere e mantenere, e meno burocratizzato. Perché chi lavora non perda anni e guadagni nell’aspettare che le leggi “maturino”, perché chi cerca giustizia ai torti ricevuti, o magari sta addirittura in cella senza essere colpevole, non debba sopportare anche la beffa del tempo che tutto cancella.
Ma eravamo partiti dall’epiteto arrogante. Sono donna e per questo guardo anche molto alla forma che spesso, mi dico, è però abito della sostanza. A proposito di abiti, a occhio e croce, non per fare pubblicità, ma mi si lasci dire che il nostro premier più che un Caraceni mi pare indossi un Ovs. Che le auto con cui si sposta non siano delle ammiraglie della Audi prodotte dal Paese della Cancelliera che, a proposito, gli ha abbottonato con amore il cappotto allacciato storto, come si fa con un figlio. E che quando è con lui, pare si diverta un mondo. Insomma, quasi avesse un debole – ve ne siete accorti? – per il ragazzone dinoccolato.
Quanto al suo entourage politico, sempre da donna, guardo alle sue donne, che, come per Berlusconi, sono tante. Solo che al posto di Veronica, Pascale e le altre, vedo Agnese, riservata e linda, e al posto dei tipi da calendario come la Carfagna o le secchione della geografia come la Gelmini, vedo la Mogherini, la Madia, la stessa Boschi, che, se per un calendario potrebbe avere le motivazioni richieste, per fortuna -sua e nostra- ha piuttosto la testa e la struttura solida di una Thatcher, perdutamente innamorata della politica. Mano di ferro in guanto di velluto.
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