Mancano due settimane al referendum e molti cominciano a chiedersi cosa succederà dopo. Non è facile prevederlo ma la domanda non va elusa.
In caso di vittoria del No il governo si dimetterà perché la riforma era il punto centrale del suo programma approvato dalle Camere. Poi la parola passerà al Presidente della Repubblica. Le elezioni anticipate a brevissimo termine sono improbabili per il semplice motivo che molti dei vincitori vorranno cambiare l’Italicum e serve una legge elettorale anche per il Senato che continuerà la sua vita. È senz’altro possibile un reincarico a Matteo Renzi ma qualsiasi riforma istituzionale sarà accantonata. Con la stessa maggioranza governativa di oggi? Difficile, è invece ipotizzabile un suo allargamento ma a quali forze politiche? Tornerà probabilmente in gioco Berlusconi ed è questo l’obiettivo che lo ha spinto a bocciare la riforma.
Ricomincerà in sostanza l’incertezza e l’instabilità politica. Il mondo riprenderà a considerare l’Italia un Paese non riformabile e le aziende italiane e straniere non saranno certamente incoraggiate ad investire. Continuerà anche la sovrapposizione di funzioni e competenze fra Regioni e Stato e in questo modo, purtroppo, il regionalismo seguirà la sua china verso il basso. Gli antiregionalisti che avevano scoperto le virtù regionali in odio alla riforma torneranno a detestarle. Perfino le Province tradizionali potrebbero sperare in una loro rivincita alimentando un sottobosco politico deteriore così che potremmo tornare a vedere, in certe zone d’Italia, dei consiglieri provinciali che lo fanno di mestiere: un costoso e dannoso professionismo politico che invece andrebbe troncato alla radice.
In caso di vittoria del Sì nessuna rivoluzione immediata ma un impegnativo e suggestivo cammino di attuazione della riforma che si concluderà con il nuovo Senato delle Regioni e delle Autonomie presumibilmente nel 2018. Solo allora si porrà finalmente fine all’anomalo doppione Camera-Senato. Bisognerà quindi approvare con urgenza la legge elettorale per i nuovi senatori perché non è detto che si arriverà comunque alla scadenza naturale del 2018.
Un punto prioritario sarà la messa a punto del nuovo sistema, semplificato e razionalizzato, di relazioni fra Stato e Regioni. Sarà laborioso ma non così complicato in quanto la riforma si fonda largamente sulla giurisprudenza della Corte costituzionale nel passato quindicennio. Ci sarà la spinta finale verso gli Enti intermedi fra Comuni e Regioni guidati e gestiti dagli amministratori comunali e ci sarà la riduzione delle indennità dei consiglieri regionali che non potranno superare quella del sindaco del Comune capoluogo di Regione.
All’estero si comprenderà che l’Italia non è più la palude istituzionale che molti hanno finora descritto con sguardo divertito. La voce del governo italiano in Europa sarà più autorevole e nessuno potrà sottovalutare l’ambizione italiana a migliorare l’UE e a dare maggiore vigore alle politiche di (moderata) espansione per rilanciare l’economia e creare lavoro soprattutto per i giovani. Anche sul piano dell’immigrazione i Paesi che vogliono alzare i muri e continuare a ricevere dall’Europa più di quanto sono disposti a concedere dovranno fare i conti con l’Italia più forte (e con la Grecia) che hanno fin qui sopportato il peso maggiore di questi fenomeni epocali.
Compiti difficili attendono l’Italia se la riforma passa. Il solito antiquato tran-tran in caso contrario. Una sfida soprattutto per le classi dirigenti di questa terra. Se è vero che il vento del cambiamento spira da Nord, la nostra provincia e tutta la Lombardia sono chiamati a confermare la loro vocazione all’innovazione per competere al meglio con l’Europa più dinamica e votata al progresso.
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