Bisogna essere molto forti per amare la solitudine: lo sosteneva Pierpaolo Pasolini, un angosciato poeta dell’esistenza, un dissacratore della sua immagine disegnata da Dio. È vero che per convivere con la solitudine bisogna diventare suo compagno o sua compagna. Ma è solo poesia. In queste settimane di freddo e di ghiaccio ho avuto occasione di imbattermi in occasionali incontri al bar, in strada, in chiesa con persone sole, non solitarie, non solinghe. Non per scelta ma segnate così dal timbro della vita, dall’infausto destino.
Al bar, chiassoso di voci e spumeggiante di propositi vacanzieri, mi sono imbattuto in un mio simile, smagrito, male in arnese che chiedeva un caffè che stentavano a dargli. L’ho assicurato che lo pagavo io e gli ho chiesto se avesse bisogno d’altro. Mi guardava con un certo stupore, immaginavo che non era abituato a soffermarsi con qualcuno che incontrava.
Mi disse bruscamente se lo facevo perché avevo “pietà” di lui. Risposi che quella parola non apparteneva al mio vocabolario, neanche a quello “religioso” perché leggendo i Salmi ho trovato sinonimi più confacenti. Insomma doveva pensare che era un semplice atto di civiltà che non aveva nessuna connotazione specifica e speciale. Abbiamo chiacchierato a lungo e ho così saputo che era stato sposato, abbandonato dalla moglie, licenziato per incuria, sfrattato perché insolvente. Trovava riparo in un vecchio capannone dalle parti di Valle Olona e recentemente in un ospizio comunale.
La cosa che gli pesava di più era la solitudine, non “quella di restare solo, ma di non avere qualcuno con cui colloquiare”. Il verbo mi aveva suscitato curiosità appagata subito dal fatto che il mio interlocutore aveva frequentato il liceo classico di N. in Piemonte. Dovevo salutarlo, non prima di aver espresso una frase convenzionale: “posso esserle utile?”. Risposta “Saprebbe comprare la mia solitudine disperata? Allora sì sarebbe utile”. E allontanandosi mi ringraziava per il caffè.
Attraversando via Magenta mi sono imbattuto in un uomo robusto, due occhi di fuoco, che mi ha chiesto un euro. Mentre cercavo il borsellino nella tasca dei pantaloni ha aggiunto “Tu pensare che bastare..?”. Mi ha mostrato una foto sgualcita che ritraeva lui con la moglie e i due figlioletti. È lontano, da un anno, dalla Bielorussia, ha fatto e fa lavoretti in giro. Era a Varese da una settimana e stava per tentare di andare in Svizzera.
“Da solo ci vai ?” ho chiesto. “Io solo, io triste, io piangere…bello casa…no bello solo…no solo!”. Si è dimenticato di prendere il mio euro.
Me lo sono trovato a fianco, sul banco della chiesa. Avevo saputo della sua terribile storia, ed ero rimasto come stordito. Sentivo fisicamente la sua solitudine, la sua impossibilità ad accettarla perché meritava e merita come tutti noi di trovare conforto e forza in un essere che ti stia vicino, ti capisca, ti ami. La sua è una storia terribile che non va più raccontata perché saprai che sei nemico di tuo fratello, sei Caino di chi è stato inchiodato alla croce della disperazione, dell’abominio, del disfacimento.
L’ho lasciato nella sua solitudine, sotto il peso di una condanna esistenziale. Bisogna essere molto forti per sopportare il peso di un comune agire lontano dagli abissi della sofferenza, della scarnificazione morale.
Mi accorgo di spendere sovente le false monete del pietismo.
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