È un fatto che negli ultimi tempi sia stata Techetecheté la trasmissione televisiva più seguita su Rai1: la trasmissione che copre, nelle sere d’estate e per circa tre quarti d’ora, l’avvio dei programmi prime time, basata sul ripescaggio e sulla presentazione di vecchi schetch, spezzoni di programmi antichi, anni Sessanta e per lo più monocanali in bianco e nero, tipo Studio Uno, Canzonissima, vecchi Festival di Sanremo, e così via aventi come protagonisti illustri e mai dimenticati personaggi del passato, da Raffaella Carrà a Lelio Luttazzi, da Mina a Gigliola Cinquetti, da Raimondo Vianello a Ugo Tognazzi e a Giorgio Albertazzi…
Non è un’annotazione di vero e proprio rimprovero. È un esperimento – e ormai ben più che un esperimento ma una scelta culturale e di programma precisa – di largo consumo e di largo successo. Le teche della Rai, gli scaffali dei magazzini, come si potrebbe anche dire, sono così ricchi e pieni che basta avere un po’ di fantasia costruttiva, andare a rivedere e a ripescare, mettere un po’ insieme e voilà, il programma è fatto, senza trucco e senza inganno. O almeno…
Sembra proprio così. Anche chi scrive, avendo un’età si può dire cresciuta in modo quasi parallelo a quella della Televisione italiana, trova piacere rivedere qualche passaggio della Tv dei ragazzi, quando da bambino – il pomeriggio, tornato a casa dalla scuola elementare perché allora si andava a scuola anche il pomeriggio, tranne il giovedì, chissà perché – si metteva in sala insieme con qualche amichetto a sbocconcellare la merenda approntata dalle mamme e a vedere l’Isola del tesoro di Stevenson a puntate, o lo Zecchino d’Oro, o la Nonna del corsaro Nero; e poi la sera, subito dopo Carosello, sbirciava dalla sua cameretta i “grandi” che vedevano Lascia o raddoppia? o Canzonissima o la commedia del venerdì sera… È un po’ essere sempre giovani, com’essere rimasti bambini o ragazzi, fantasticamente fermi nel tempo.
Ma è un bene tutto ciò? Fosse un’operazione culturale risponderemmo senza esitazione di sì. Nella realtà in questi recuperi c’è un obiettivo diverso: rispolverare il vecchio per presentare qualcosa di nuovo, che nuovo non è e che ci fa avvitare su noi stessi con un’inesistente prospettiva sul futuro.
Non si vede come potrebbero rispondere ad altro scopo i recuperi di due personaggi ormai mitologici più che mitici della televisione, Pippo Baudo e Maurizio Costanzo, entrambi poggiantisi sul fardello (ben portato, in verità) degli ottant’anni; il primo richiamato a guidare – anche da un punto artistico – una trasmissione di intrattenimento come Domenica in, nemmeno fossimo risprofondati nel finire degli anni Settanta o nell’inizio degli Ottanta, e il secondo, seduto come solo un vecchio signore potrebbe stare seduto, accanto focolare con il gatto da accarezzare sulle ginocchia, in un salotto televisivo che richiama i fasti di una sua trasmissione “antica”: Bontà loro. E spesso capita che anche i personaggi invitati a vellicare il senso di nostalgia del pubblico a casa non siano promesse e nuovi virgulti, ma gli stessi che in un tempo ormai lontano, senza rughe sui volti oggi invece un po’ stiracchiati, ci decantavano le nostre sorti magnifiche e progressive.
Il rifugio nel passato, anche in tv, o al cinema, o nel mondo della canzonetta, non è una cattiva cosa. Soprattutto quando il presente e il futuro non danno tante garanzie di certezza. Ma è anche un’operazione pericolosa, e se non pericolosa triste e decadente. Anche a chi ama il revival (ogni tanto) piacerebbe guardare davanti a sé. Il passato, l’esperienza sono sempre bagagli utili per intraprendere un viaggio. Ma bisogna viaggiare, cominciare, ripartire. Se no si sta fermi al palo.
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