“Per fortuna viviamo in una zona a basso rischio sismico”. Questo è il primo pensiero che mi balena nella mente quando un terremoto si scatena in qualche parte del Paese. Non ne vado fiera. E, a farmi sentire definitivamente in colpa, lo schermo televisivo mi rimanda l’immagine di una vecchina con un incongruo mazzo di fiori in mano, in un cimitero semidistrutto. Con la voce incrinata dice di aver perso il marito e la figlia. Forse non in questo terremoto, forse da anni, ma il suo gesto, rivelatore di una pietas che sopravvive nonostante tutto, mi fa annodare qualcosa dentro. Intorno a lei, altre persone rimuovono macerie, cercano di ricomporre scritte sulle lapidi, si portano via fotografie dimezzate.
Così, quasi per espiare la colpa di quel primo istintivo pensiero, provo ad immaginarmi dentro un terremoto. Allontano subito la visione di me vigile sotto le macerie, in attesa di soccorsi che forse non arriveranno. Nella mia finzione mi salvo.
Un boato. I muri scricchiolano, il pavimento ondeggia, i mobili si aprono: piatti, bicchieri, abiti si rovesciano a terra. Mi precipito alla porta. Riesco ad aprirla, ed è già una fortuna. Le scale si muovono – meno male che sto al primo piano, solo undici gradini. Ecco, sono fuori, ce l’ho fatta. Neanche il tempo di pensarlo ed un fragore ancora maggiore mi costringe a voltarmi: la facciata dell’edificio si sta abbattendo al suolo in una nuvola di polvere e detriti. La mia casa è spalancata: il letto disfatto, così come l’ho lasciato, i mobili sbilenchi, la mia intimità violata. Una casa di bambole, senza la parete anteriore.
Mi dirigo verso la piccola piazza alla ricerca di un punto fermo, qualcosa di solido da cui poter riprendere fiato e ripartire: l’edicola abbattuta, la panetteria rasa al suolo, della chiesa resta solo il campanile – per quanto? Vado oltre: la Basilica, il Comune. Certo quelli avranno resistito, hanno superato i secoli. No, solo qualche troncone di facciata. Neppure il Battistero, il monumento che più amo della mia città e che era lì da 900 anni, neppure quello si è salvato. Intanto le scosse continuano e ad ogni sussulto crolla un pezzo della mia vita.
Altri, come me, si aggirano sgomenti. Abbiamo perduto denaro, documenti, abiti, casa: mi chiedo perché la perdita dei nostri monumenti sia così dolorosa. Poi capisco: quelli erano i nostri averi; qui, in queste mura crollate c’era la nostra storia comune, con la bellezza dell’arte abbiamo perduto la nostra civiltà, la nostra identità, il nostro essere.
Ripenso a quelle suore di Norcia che si sono inginocchiate a pregare in mezzo alla piazza – estremo gesto di dolore e di speranza – e di nuovo qualcosa mi si annoda in gola. E mi riaffiora un ricordo che credevo perduto, di un terremoto di tanti anni fa: un uomo si aggira tra le case distrutte fumando una sigaretta. Col rigore dei vent’anni l’avevo giudicato : ”Ma come? Invece di dare una mano ai soccorritori che sono lì per lui se ne va in giro a fumare?”. Adesso riesco a capirne lo smarrimento.
E ancora una volta mi trovo a pensare che siamo come formiche che un gigante invisibile inconsapevolmente calpesta mentre si dirige ad una sua imperscrutabile meta.
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