«Hanno appena messo piede in città, […] ecco che la terra trema sotto i loro piedi; il mare si gonfia spumeggiando nel porto, e spezza le navi ancorate. Turbini di fiamme e cenere coprono strade e pubbliche piazze; crollano le case, i tetti si rovesciano sulle fondamenta, le fondamenta scompaiono; trentamila abitanti di ogni età e sesso son schiacciati sotto le macerie.»
Nel quinto capitolo del Candido ovvero l’ottimismo, del 1759, Voltaire si sofferma a descrivere il terribile terremoto che aveva colpito Lisbona il 1° novembre di quattro anni prima. Il terremoto di Lisbona, a causa del quale forse perse la vita un quarto o un terzo della popolazione della capitale portoghese, fu un evento cruciale nella storia dell’Europa moderna.
In Portogallo si affermò la figura di Sebastião José de Carvalho e Melo, insignito del titolo di marchese di Pombal nel 1770, che governò di fatto il Paese per un ventennio. Fu lui ad indicare gli interventi da intraprendere immediatamente dopo il terremoto (lo smaltimento dei cadaveri, la punizione degli sciacalli, lo sgombero delle macerie) e fu lui a guidare la successiva ricostruzione della città secondo criteri che oggi definiremmo antisismici. Il crescente potere politico concesso al marchese di Pombal dal sovrano Giuseppe I determinò una spaccatura tra la corona e l’aristocrazia (nel 1758 fu addirittura ordita una congiura che causò il ferimento del sovrano).
Ma di gran lunga più importanti che non sul piano politico furono le conseguenze che il terremoto di Lisbona scatenò sul piano culturale.
«Dopo il terremoto che aveva distrutto i tre quarti di Lisbona, – si legge ancora all’inizio del sesto capitolo del racconto di Voltaire – i saggi del paese non avevano trovato mezzo più efficace per prevenire una rovina totale che di dare al popolo un bell’autodafé; era stato deciso dall’università di Coimbra che lo spettacolo di qualche persona bruciata a fuoco lento, con gran cerimonia, fosse un infallibile segreto per impedire alla terra di tremare. […] Candido, spaventato, sconvolto, smarrito, tutto insanguinato, tutto affannato diceva tra sé: “Se questo è il migliore dei mondi possibili, cosa saranno mai gli altri?”».
Il problema, per Voltaire e per molti altri, era proprio questo: il terremoto si era scatenato in uno Stato cattolicissimo, nel giorno di Ognissanti, proprio quando le chiese erano gremite di fedeli. Ma, di fronte allo spettacolo della distruzione, come poteva essere sostenuta la tesi secondo cui vivremmo «nel migliore dei mondi possibili»?
Era questa la tesi di Leibniz, che nei Saggi di teodicea (1705) faceva dire a Pallade: «Tu vedi qui il palazzo dei destini, del quale sono la custode. In esso ci sono rappresentazioni, non soltanto di quel che accade, ma anche di tutto ciò che è possibile. E Giove, avendole passate in rassegna prima del cominciamento del mondo esistente, ha distribuito le possibilità in mondi e ha fatto la scelta del migliore di tutti». In sostanza, Dio, essere buono e perfetto, dopo aver preso in esame le forme ideali degli universi possibili, non poteva che creare il mondo migliore.
Contro le teodicee tradizionali si levò, appunto, la voce di Voltaire, che già pochi giorni dopo il tragico evento compose il Poema sul disastro di Lisbona (fatto poi stampare agli inizi dell’anno successivo): «Poveri umani! e povera terra nostra! / Terribile coacervo di disastri! / Consolatori ognor d’inutili dolori! / Filosofi che osate gridare tutto è bene, / venite a contemplar queste rovine orrende: / muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri. / Donne e infanti ammucchiati uno sull’ altro / sotto pezzi di pietre, membra sparse; / centomila feriti che la terra divora, / straziati e insanguinati ma ancor palpitanti, / sepolti dai lor tetti, perdono senza soccorsi, / tra atroci tormenti, le lor misere vite».
Gli rispose Rousseau il 18 agosto 1759, sostenendo che «la maggior parte dei mali naturali di cui siamo afflitti sono […] opera nostra»: «converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto».
Anche il nostro Leopardi aveva letto il Poema di Voltaire. Lo cita esplicitamente in una nota del 18 aprile 1826 affidata al suo Zibaldone. E del resto, anche Leopardi, nella Ginestra, prendendo spunto da altre catastrofi, riflette sulla potenza di quella natura che «Con lieve moto in un momento annulla / In parte, e può con moti / Poco men lievi ancor subitamente / Annichilare in tutto».
Tutto sommato, le domande che insorgono di fronte a eventi naturali imprevedibili e dalla straordinaria portata distruttiva, come sono appunto i terremoti, continuano a suscitare domande non molto dissimili da quelle che interessarono la modernità europea settecentesca (anche Immanuel Kant, con approccio tuttavia più scientifico, si interessò al terremoto di Lisbona). E l’emozione che tali eventi procurano non è scatenata solo ed esclusivamente dal loro costo umano. Restiamo ugualmente (se non di più) sconcertati, quando la distruzione colpisce i segni materiali del nostro passaggio sulla Terra, quando cancella cose, che pensavamo dovessero durare per sempre (uso qui il termine «cose» nell’accezione datane da Remo Bodei nel volume La vita delle cose, 2009, e cioè oggetti «investiti di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano»).
Differentemente da noi, noi uomini occidentali, ossessionati dall’idea di dover perdurare eternamente, di dover sopravvivere anche al nostro involontario passaggio sulla Terra, la cultura orientale ha forse saputo affrontare con maggiore serenità il fragile rapporto che lega l’uomo alla natura. Lo scrittore giapponese Haruki Murakami, ad esempio, capitò a Barcellona poco dopo che un violento terremoto aveva sconvolto il suo Paese nel marzo del 2011. Era in Europa per ritirare un premio, ma non poté esimersi dal fare riferimento nel suo discorso alla recente catastrofe, che, con la sua violenza, aveva addirittura fatto girare più velocemente la Terra sul proprio asse. «In giapponese – spiegò – abbiamo la parola “mujō” (無常). Significa che tutto è effimero. Tutto ciò che nasce in questo mondo cambia e alla fine scomparirà. Non vi è nulla di eterno o di immutabile su cui possiamo fare affidamento. […] Abbiamo in affitto una camera sul pianeta Terra senza alcun permesso. Il pianeta Terra non ci chiede mai di vivere su di esso. Se trema un po’ non possiamo lamentarcene, poiché tremare di tanto in tanto è una delle caratteristiche della terra. Che ci piaccia o no dobbiamo convivere con la natura.»
Questa visione effimera dell’esistenza non è priva di senso né manca di scopo. Le grandi tragedie, naturali o causate dall’uomo, dovrebbero spingerci ad intraprendere con più convinzione e con maggiore ostinazione un percorso di rigenerazione etica e civile che non riguarda le nostre brevi, piccole, inutili esistenze, ma il futuro dell’intera umanità. Dovremmo coltivare utopie ambiziose. «Dobbiamo essere “sognatori irrealistici” – dichiarò ancora Murakami nel suo discorso – che procedono con vigore. Gli esseri umani moriranno e svaniranno, ma l’umanità trionferà e si rigenererà per sempre. Al di sopra di tutto dobbiamo credere in questa potenza».
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