Alcune cosette a proposito d’autoritarismo made in Italy (e in politics). Ciò che rischia d’improntare, secondo molti, lo zeitgeist di memoria hegeliana: lo spirito del tempo. La domanda è: stiamo per entrare in una Repubblica dittatoriale, se il “sì” vincerà al referendum? Proviamo a rispondere.
Prima cosetta. La riforma costituzionale non aumenterà i poteri del presidente del Consiglio. Che non può e non potrà sciogliere le Camere. Non può e non potrà licenziare i ministri. Non può e non potrà scegliersi il capo dello Stato, poiché il quorum necessario non sarà mai inferiore ai tre quinti dei parlamentari. Assegnato a ciascuno il suo valore di scala, va ricordato che ha maggiori poteri un sindaco del premier, in questo Paese.
Seconda cosetta. Per quanto ridotto nelle funzioni, al Senato sarà consentito di bocciare eventuali riforme della Costituzione; e sarà permesso di obiettare alle leggi varate dalla Camera che -concesso un mese di tempo per l’esame – manterrà l’ultima parola sul provvedimento. Essendo Palazzo Madama d’espressione regionale (con l’aggiunta d’un certo numero di sindaci e di pochi nomi suggeriti dal capo dello Stato), qualora fosse composto da una maggioranza diversa da quella di Montecitorio, avrà modo, se vuole, di svolgere una sistematica azione di disturbo.
Terza cosetta. Sempre in tema di Senato: chi lo compone nominerà due dei cinque giudici costituzionali di scelta parlamentare. Se ne gioveranno le opposizioni. Col sistema attualmente in vigore, la maggioranza governativa li potrebbe designare tutti e cinque. A proposito di tutela delle minoranze va inoltre detto che si stabiliscono nuovi paletti per la decretazione d’urgenza, e al presidente della Repubblica è garantito un miglior esercizio di vigilanza sulle leggi.
Quarta cosetta. Cala, come accennato, il quorum di votanti necessario perché un referendum abrogativo sia valido. Funzionerà così: se le richieste saranno supportate da 800mila firme, per abolire una legge non sarà indispensabile il 50,1 per cento degli elettori, ma la metà di quanti hanno votato alle precedenti elezioni politiche. Cade anche il divieto dei referendum propositivi, pur se ci vorrà un’apposita norma istitutiva. Ancora in merito a iniziative popolari: raccogliendo 150 mila firme, sarà lecito proporre leggi. E il Parlamento avrà l’obbligo di esaminarle. Oggi sono sufficienti 50 mila firme, ma non esiste il dovere di discuterle. E difatti vengono lasciate nel dimenticatoio.
Quinta cosetta. Il premier conterà di più solo grazie alla nuova legge elettorale, se approvata così com’è oggi. Nel senso che il partito vincitore, cui spetterà d’indicarlo, non dovrà venire a patti con nessuno in virtù del principio maggioritario, peraltro ottimamente funzionante in Stati a indiscutibile tasso di democrazia. Ma la legge elettorale, chiamata Italicum, c’entra zero con la riforma costituzionale.
Resta peraltro vero che il cosiddetto “combinato disposto” delle due rafforza (democraticamente) il capo del governo. Per non rafforzarlo troppo, è probabile che l’Italicum venga emendato o tramite scelta politica o su disposizione della Corte costituzionale. Renzi – anticipando il verdetto delle alte toghe – sembra pronto a sacrificare un quid della governabilità dell’Italia a un tot di stabilità del Partito democratico. E questo, tra i tanti meriti da riconoscergli, è un palese demerito. Perché avremmo bisogno di un leader dell’esecutivo (e avremmo bisogno di un esecutivo) dotato d’una capacità operativo-decisionale maggiore di quella che l’eventuale “sì” gli porterà in dote. Chiunque sia il leader e qualunque sia l’esecutivo. Così vorrebbe, secondo la visione di pochi, lo spirito del tempo made in Italy e in politics: lo zeitgeist di memoria hegeliana. Ma sono davvero pochi?
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