La stanza è praticamente piena.
Siamo seduti lungo i muri, su sedie bianche. Mi sono messa accanto alla finestra, ho di fronte la porta che varcheremo tutti, secondo l’ordine di chiamata.
Non ti ho notato subito: sei alla mia sinistra, seduta contro la parete perpendicolare alla mia. Un ammasso di abiti grigi. E il grigio è il colore che ti domina, dai capelli alle calze, quelle pesanti delle donne anziane. Hai scarpe nere basse, un po’ impolverate. Tieni le gambe unite, le mani congiunte in grembo, la testa china. Si direbbe che tu dorma, se non si percepisse ogni tanto un minimo aggiustamento delle spalle contro lo schienale della sedia.
Sembri quasi povera. Quasi vecchia. Non vedo nei dettagli le tue mani, ma mi paiono grosse, ordinarie. Hai lavorato, tanto. Forse in campagna, più probabilmente come donna delle pulizie, in qualche grande ufficio. Hai pulito lunghi corridoi, stanze arredate, hai lavato in ginocchio bagni, ripassato androni, sollevato moquettes e tappeti di ascensori. In orari strani, dopo che gli impiegati erano andati via,ti sei arrampicata a pulire vetri, ti sei piegata a vuotare cestini. A casa, il marito e i figli. Ogni giorno un problema, spesso i litigi. Poi tuo marito è rimasto invalido: tutto è stato sulle tue spalle, anche dopo che i figli si erano sposati. Li hai dovuti aiutare, lavorare ancora. E tamponare tutte le falle con la pazienza, congiungendo gli opposti, ripianando i contrasti. Mai un grazie, tutto dovuto. Mai uno svago: lavoro e sacrificio, sacrificio e lavoro.
Ora sei qui, con tutta la tua vita addosso, su quella sedia. Aspetti il turno. E il turno arriva: la porta si apre, viene pronunciato il tuo nome.
Ti alzi: sei alta, hai una bella figura, non mi pareva. Ti alzi e ti vedo gli occhi: azzurri, grandi. Mentre ti avvii si incrociano con i miei: balena un lampo azzurro, di dignità e fierezza
* * *
Hai cercato l’angolo più nascosto, a destra rispetto a me,al congiungimento di due pareti.
Il nascondersi, meglio l’appartarsi, è l’atteggiamento abituale tuo e dei tuoi coetanei. Dice: “Con voi non possiamo, non vogliamo avere niente in comune”.
È stata la finestra aperta e richiusa da una persona in attesa a farmi balenare nel vetro la tua testa arruffata. Perciò ti ho cercato con lo sguardo, per osservarti meglio. Le scarpe non possono passare inosservate: tacco possente, borchie, cinturini… E sono jeans gli indefinibili pantaloni che indossi, più buchi che stoffa? Sei seduto sul bordo della sedia, a gambe larghe, i gomiti sulle ginocchia, il busto piegato in avanti, a fare quello che fanno tutti: smanettare sul cellulare. Ti guardo le mani: magre, piene di anelli. E dagli anelli al volto: piercing tra le narici, due orecchini, uno lungo e uno no, un tatuaggio che sale dal giubbotto. I capelli lunghi quanto basta perché io non veda con chiarezza il tuo viso.
Sono certa che questa faccia poco leggibile non ti fa gioco, a scuola, con i professori. Sei sfuggente. Frequenti un istituto di quelli dove si parcheggiano i ragazzi come te, di cui non si sa cosa fare. E, naturalmente, chi conta per te è il gruppo, cioè il “branco”, come si usa dire. Gli altri che vi appartengono appaiono come te, ma tu hai qualcosa di particolare: sei così magro, non ti ci vedo a fare il gradasso.
Sei figlio unico. Tuo padre fa il camionista di Tir, non c’è mai. Sta fuori anche due o tre notti a fila, poi quando torna è talmente stanco che quasi non ti vede e si butta a dormire. Tu hai un vago ricordo di una domenica d’infanzia, sulle sue spalle, al luna-park. Ti è rimasta quella sensazione di vedere il mondo dall’alto, come un re. Poi, via via negli anni, vi siete parlati sempre meno. Lo hai sentito gridare, con la mamma, hai capito che erano questioni di soldi.
Anche la mamma la vedi poco. Ti fa da mangiare, cura la casa, ma quando torni da scuola spesso non c’è: fa la badante a una signora vecchia, ha orari strani. Così mangi da solo. E ascolti musica, chatti, soprattutto esci col gruppo. Con loro si sa sempre dove andare e cosa fare. O meglio lo sa quello grosso, che comanda, con i suoi fedeli. Almeno non sei solo. Ma ti sei dovuto adeguare, certe cose le hai dovute fare. Nelle più brutte sei riuscito a defilarti un po’, ma fumare la roba hai dovuto. Ti è anche piaciuto. Ora lo fai abitualmente. A volte ti sembra che tua madre lo sospetti, però non ti dice niente: ha anche lei i suoi problemi. Ogni tanto esce dalla camera da letto con gli occhi rossi, e non parla. È capitato che un giorno venisse a trovarla sua sorella e si chiudessero in camera. Tu eri lì, a ciondolare per casa. A un tratto la mamma ha alzato la voce, come se si sfogasse con la zia, e le hai sentito quasi gridare: “Capisci, quel por…!”. Parlavano di tuo padre.
E i professori? Vedi bene che combattono battaglie assai spesso perdute. Tu proprio non vorresti fare il loro lavoro. Eppure l’anno scorso arrivò un supplente che si comportava come un padre, si capiva che ci teneva, a te e agli altri. Poi se ne dovette andare.
Infine ci sono le ragazze. Ti piacerebbe averne una solo per te, che ti capisse e ti ascoltasse. Quelle che ci sono in giro, dentro il gruppo e fuori, sono sfacciate più di un maschio. Si danno con niente. Però un giorno è successa una cosa: con una di loro eri su un prato, in periferia, stavate per prendervi. All’improvviso lei ti ha spinto via, si è allontanata e, con la testa tra le ginocchia, si è messa a piangere, a piangere… Tu non sapevi cosa fare. Da una parte eri deluso, anche arrabbiato, dall’altra ti ha preso un sentimento strano: ti faceva pena. Anche tu ti facevi pena.
Ora vedo che non smanetti più. Guardi nel vuoto.
Si apre la porta, tocca a te. Ti alzi, e finalmente ti vedo intero. Sei più piccolo di come mi era sembrato. Cammini incerto, come un bambino
* * *
Alzo lo sguardo dal giornale e ti vedo. Siedi a destra della porta che si apre per ciascuno di noi, di fronte a me. La prima cosa che noto è la tua cravatta, d’un azzurro chiaro, con un nodo perfetto. Tieni le gambe accavallate, le mani appoggiate sulle ginocchia, una sopra l’altra. Vedo che sei a busto eretto, ben appoggiato allo schienale. Hai gli occhiali, i capelli grigi, stempiato: puoi avere sessant’anni. Ad una osservazione più attenta l’abito, un gessato grigio, non appare di fattura elegante, ma molto ben tenuto. Merito di tua moglie, probabilmente.
È una buona moglie, tua moglie. Forse l’hai delusa, anche se lei non ti ha mai dato motivo di sospettarlo. Hai un diploma, preso al corso serale. La tua famiglia era modesta: cinque figli e un solo stipendio, di tuo padre ferroviere. Eri un ragazzo intelligente, un po’ timido, e onesto. Onesto in tutto, fin da allora. Cominciasti con il tenere la contabilità di un piccolo commerciante; incontravi coetanei che andavano all’università, come ti sarebbe piaciuto. Ma tuo padre invecchiava, tu eri il primo dei cinque. Coltivavi la tua sete di sapere da autodidatta. Intanto il mondo intorno girava, tra contestazione, terrorismo, governi…E ti eri sposato, con una ragazza graziosa e intelligente. Pian piano trovasti un buon lavoro, e la vita procedeva su onesti, laboriosi binari.
Lavoravi in una ditta con molti impiegati. Lì accadde che avresti potuto, in una particolare circostanza, fare lo sgambetto a un collega, salire di grado e guadagnare di più. Avevate varie spese in casa, proprio in quel momento. Tua moglie aveva percepito che eri nervoso, te ne chiese ragione: tu accampasti inesistenti motivi fisici. In realtà non sapevi cosa fare: venir meno alla rettitudine cui da sempre ubbidivi, e che lei condivideva? Dare alla tua famiglia un agio superiore, che era naturale desiderare? Lasciasti perdere lo sgambetto. Ma in ufficio, dopo quella volta, alcuni ti guardarono con una sorta di commiserazione, come si fa con chi,avendo un’occasione unica, non sa afferrarla.
Ed ancora era successo che, vista la materia in cui il tuo datore di lavoro operava, ti fosse chiesto di avallare un imbroglio: materiale scadente per un’opera venduto come se fosse buono. Ti opponesti fieramente, contro l’interesse dell’impresa. Da quel momento, ogni possibilità di promozione ti fu preclusa.
Ma il peggio per te doveva ancora arrivare.
La ragazza, appena assunta, fu messa al tuo fianco per aiutarti nell’uso del computer, per te un po’ ostico. Un’onda di capelli neri su due spalle magre, e due occhi grandi. Fu un aiuto davvero e una ventata di freschezza che ti trovasti a fianco. Aumentando il lavoro, prendeste a fare degli straordinari, frequenti. Tanto frequenti che tu percepisti tra i colleghi mezze parole, sorrisini…Ne fosti offeso e, però, turbato. Ti scopristi a pensare a lei anche fuori orario d’ufficio, anche la domenica: ti capitò di non rispondere a tono a domande di tua moglie, o dei figli, perché stavi pensando a lei. Infine il tuo atteggiamento con lei mutò: alla spontanea collaborazione subentrò una sorta di imbarazzo. Anche la ragazza era cambiata, rideva a sproposito, faceva errore banali, evitava di guardarti negli occhi. Capisti che non le dispiacevi. E i colleghi sogghignavano. Eri così nervoso che tua moglie se ne accorse: ti osservava, e taceva.
Un giorno, quando gli altri impiegati se ne erano andati, tu e la ragazza foste costretti, per un imprevisto d’ufficio, a rimanere di più. Finito il lavoro, cadde il silenzio: lei non se ne andava, tu neppure. Ti fissava, e aspettava. Tu muovevi alcune carte in modo inconcludente, e tacevi. Allora, dopo un momento lunghissimo, si alzò di colpo, afferrò la borsetta ed uscì. Sentisti lo scatto crudo della porta, poi ti sedesti davanti alla finestra, con le spalle alla scrivania. Ah, potersi innamorare ancora, ancora una volta prima di invecchiare, ancora una volta prima di morire! Provare ancora l’ansia dell’attesa per un sì o per un no! Lasciare tutto,andare altrove, ricominciare!
Tornato a casa, aprendo la porta ti fermasti un attimo sulla soglia: nel soggiorno tua moglie leggeva a testa china. Non la alzò per salutarti. Tuo figlio si intravvedeva nella sua stanza al computer e dalla camera di tua figlia giungeva il suono del flauto cui si dedicava.
Non mostrarono segno di averti visto o sentito entrare. Fosti tu a dire, con la voce più lieta che potesti: “ Sono tornato, bella gente! Cosa si mangia stasera?”
Ora sei qui, in sala d’attesa. Tranquillo. Sai che il gabbiano ci mostra il lampo bianco del suo volo in picchiata, per prendere il cibo, e poi torna lassù, dove deve stare.
La porta si apre: tocca a te.
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