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Società

CULTO DEL PASSATO

EDOARDO ZIN - 27/10/2016

Vicenza, villa Valmarana

Vicenza, villa Valmarana

Sono stanco di scrivere e di parlare di referendum, di consultare atti parlamentari e gazzette ufficiali, sempre incerto fra il lodare l’eterno imbonitore o di cercare il responsabile della mancanza di una moralità profonda.

Una mattina di sereno autunno, anche se greve di pioggia leggera, fuggo per alcuni giorni e mi rifugio nella città che mi generò e di cui conosco gli aneddoti segreti, le viuzze dimenticate, i personaggi conosciuti nella mia giovinezza e già sepolti anche nella memoria di coloro che tanto sono stati onorati.

Mi accompagnano Lidia, i miei consuoceri, desiderosi di scoprire il volto di una città dove storia, arte, letteratura, religiosità, natura si compenetrano e si armonizzano in una cultura per la quale Guido Piovene, ideò il termine “vicentinità”.

Mi ospita una casa che sorge alle pendici dei Berici dove visse Antonio Fogazzaro. La finestra della mia camera dà sulla “valletta del silenzio” che accoglie dolci poggi, prati coltivati con soavità, boschi curati. Sembra immutata da quando il romanziere la descrisse in “Piccolo mondo moderno”.

A pochi passi di lì sorgono la villa e la foresteria dei Valmarana, le cui pareti, affrescate dai Tiepolo, con i loro colori smorzati e con i loro personaggi lirici, sensuali, fantastici ci parlano ancora di classicità. Il muro di cinta è fregiato da una lunga serie di statue in pietra dei Berici raffiguranti buffi e grotteschi nani che rievocano una secolare, dolce fiaba di un amore tra una principessa nana ed uno splendido giovane.

Scendendo per un viottolo dove il fogliame appassito si raduna assieme a quello delle foglie indurite di vite, si giunge alla villa Capra, meglio conosciuta come “la Rotonda”, il capolavoro di Andrea Palladio, adagiata su un dolce colle. Mi aggrada notare che, mentre spiego a chi mi accompagna la singolarità dell’architettura, il custode e un gruppo di turisti si avvicinino per orecchiare semplici spiegazioni accompagnate da storielle a mia volta trasmessemi da cari amici.

Rivivono in me le figure del mio professore di storia dell’arte e quella, molto più semplice, ma non meno sapiente, di mia madre e quelle di tanti compagni con cui avevo in comune l’ardore smorzato per la città. Compaiono chiare e sfumate nello specchio capriccioso della memoria gli oleandri rosa pallido che spuntavano dai muri, le ore della fanciullezza quando alla “sagra de San Bastian” facevo le bizze per avere lo zucchero filato , le passeggiate con i primi amori, le “bigiate” da scuola.

La nebbia, che sale dal vicino lago di Fimon e che concorre a rendere decorativa una natura che i vicentini non sempre hanno saputo rispettare, sembra sciogliersi. Il sole luminoso e l’aria assolata ci invitano a salire al Santuario di Monte Berico. Su questo colle i vicentini vanno a pregare la Vergine, ad adempire voti fatti dai loro padri, a festeggiare la loro Patrona che proprio cent’anni protesse la loro terra dall’invasione delle truppe austro-ungariche.

Dalla balconata che cinge l’ ampio piazzale si scorge la catena scura dei monti. Ne approfitto per far notare sul filo dell’orizzonte le cime che un secolo fa furono teatro di carneficine: dal Pasubio, all’altopiano di Asiago e poi il Grappa, e il Tomba e l’Ortigara e il Montello fino al Piave. Sotto di noi si apre Vicenza: si notano subito il tetto a forma di carena rovesciata della Basilica Palladiana, la Torre di Piazza e i campanili che riversano sulla città un suono lieve, festoso, rapido, così diverso da quello grave delle nostre chiese lombarde.

Ci sediamo su una panca. Penso, rifletto, sono attento e ricettivo. Corro all’indietro lungo l’arco del tempo e indago fra le voci sopite chi mai sia stato a farmi amare la città. Essere anziani è anche questo: ricordare per capire, mentre quand’ero giovane ero costretto a ricordare senza capire. Arriva una frotta di studenti che mi stordiscono col loro gioioso fracasso: chissà se saranno capaci di amare e custodire questi luoghi! La freschezza di tante città è questo culto del passato. Senza memoria le città si spengono e diventano creative solo se il futuro si radicherà nella memoria di chi oggi ci vive.

Lidia mi invita a sbrigarmi. Dobbiamo visitare il Veronese e il Montagna in Basilica, scendere in città per ammirare in Santa Corona il Bellini ed un altro Montagna. “La cena” di Monte Berico l’associo a quella del refettorio dei benedettini all’isola di San Giorgio a Venezia e a quella del Louvre. Non so quale sia la più bella. Il Veronese prende sempre a pretesto un episodio evangelico per ritrarre un sontuoso banchetto del ‘500, ma la tela di Monte Berico mi è particolarmente cara perchè squarciata in trentasette pezzi dalle baionette austriache durante le epiche giornate del 1848 e successivamente restaurata: l’architettura di sfondo è palladiana, da uno squarcio di cielo penetra la luce che fa brillare i colori puri, decisi e brillanti del tovagliame, dei vestiti, del vasellame.

Nel “Battesimo di Cristo” di Giovanni Bellini mi piacciono i particolari: il pappagallo che fa da contrasto alla macchia rossa del mantello di una donna, i sassi visibili sul fondo del Giordano, le gocce d’acqua che Giovanni versa sul capo di Gesù, i ciuffi d’erba, mentre il cielo reso luminoso dalla luce calda del tramonto e il paesaggio tutto veneto suscitano serenità.

 Di Bartolomeo Montagna si sa poco, ma di lui parlano “La Pietà” a Monte Berico e “L’adorazione dei Magi” in Santa Corona: mentre la Vergine tiene sconsolata sul suo grembo il corpo esangue del figlio e lo sfondo, la luce, i colori partecipano al dolore della madre, nell’”Adorazione” c’è un tripudio di colori, uno sfarzo di fogge.

Chissà se la buona scuola d’oggi sarà capace d’insegnare l’amore genuino per l’arte alla gente sciatta, frettolosa, chiassosa che riempie i nostri musei e le nostre chiese. Chissà se inviterà i contemporanei a contemplare, oltre il visibile dell’arte, l’Invisibile. Siamo pronti a prenotare posti per andare su Marte, ma non andiamo a contemplare un’aurora da un’altura vicina a casa. Festeggiamo compleanni con cene e gran baldoria, ma non abbiamo il culto delle date storiche. Costruiamo immensi grattacieli,ma non curiamo le lapidi delle dimore e i monumenti ai caduti. Amiamo il luogo di villeggiatura esotico dove andiamo a testa nuda sotto il sole cocente, ma non conosciamo la nostra città!

Anche la buona tavola, schietta come il pane fragrante appena sfornato, è cultura, amicizia. L’ho provato più volte. Ritrovarsi, dopo tanti anni, in occasione di una solenne seduta dell’accademia che da quasi cinquecento anni conferisce un prestigioso titolo ai vicentini che hanno onorato la loro città natale con i loro studi e le loro opere, è motivo di incontro, di festa, di condivisione di gioie e speranze, di preoccupazioni e dolori. Si dipanano i ricordi. Rimane luminoso il piacere di essere tuttora uniti a spartire il vivere. Guardarsi in faccia a tavola, comunicare con il volto, scorgere nel cibo approntato il sapore della giovinezza e il ricordo degli anni lontani è rivivere.

La pioggia di ottobre riga le imposte. Sul focolare sono disposte le zucche. Fuori dal casolare che ci ospita, l’autunno intristisce. Sembra che tutto sia morto e invece tutto si appresta al riposo per poi riprendere la vita fatta di memoria, di bellezza, di amicizia.

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