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Stili di Vita

CURA DI SÉ E DEGLI ALTRI

VALERIO CRUGNOLA - 27/10/2016

Il diario di Vincenzo Rabìto pubblicato con il titolo “Terra Matta”

Il diario di Vincenzo Rabìto pubblicato con il titolo “Terra Matta”

Il pensiero filosofico serve davvero a qualcuno se in ultima analisi si traduce in un lavoro su di sé: la persona che esercita quel pensiero, anzitutto; e quella che ne intercetta gli impulsi e li fa suoi. A propria volta il lavoro autobiografico apre la porta a interrogativi di ordine filosofico. La sintesi più elevata e inarrivabile di questa duplice connessione si trova nei «Saggi» di Montaigne.

Quali che siano gli oggetti che determinano il compito della filosofia, il suo ruolo non è mai interamente autonomo. Il pensiero speculativo vale in quanto possa orientare i contenuti e le forme delle conoscenze di ciascuno per indirizzarle problematicamente alla vita.

A propria volta, la vita interroga se stessa. È questa la peculiarità dell’esistenza umana rispetto alle esistenze degli altri animali.

Pensiero e riflessività procedono sempre insieme. Spesso però abbiamo fretta: gli interrogativi affiorano e poi scivolano via, travolti dal corso delle cose. Oppure gli interrogativi ci spaventano e cerchiamo di rimuoverli: abbiamo paura di metterci in causa, preferiamo coprire i nostri imbarazzi, aggirare la sofferenza, mettere tra parentesi un qualunque lato o passaggio della nostra esistenza che non ce la sentiamo di affrontare. Più spesso non siamo capaci di formulare i nostri interrogativi: restano a noi stessi oscuri, li intravediamo a malapena e non abbiamo a disposizione strumenti adeguati per dare loro un contorno. In genere siamo soli quando questi interrogativi affiorano, e non riusciamo a svilupparli perché siamo poco avvezzi a confrontarci con altri individui sul piano del pensiero, e a volte siamo restii anche ad aprirci in chiave autobiografica. Altre volte pensiamo che la fatica sia inutile, che non valga la pena tornare sui propri passi o indagare se stessi. Infine, ci ostacola l’indolenza intellettuale, l’abitudine alle comode tiepidità del torpore: meglio seppellire le domande guardando la tv, navigando in internet o connettendosi compulsivamente su Facebook.

Pensare la propria vita, in effetti, non è semplice. Il passato si presta a deformazioni, alla selettività della memoria, a ricostruzioni razionalizzatrici, alla mitizzazione di noi stessi, ma anche al loro opposto, l’autocensura, il «ritorno del rimosso», una narrazione frantumata, la svalutazione di sé che discende da un’autocritica ossessiva. Il presente è una selva difficile da disboscare, pretende delle scelte. Il futuro è sì aperto all’intenzionalità, ma anche al velleitarismo, alla difficoltà di prendere le misure di noi stessi; e in più non possiamo valutare a priori le retroazioni sulla nostra esistenza che discendono dal comportamento degli altri.

Spesso l’esercizio della riflessività non si deposita e lascia dileguare i suoi potenziali frutti: se mancano di un’oggettivazione e di uno sguardo critico a posteriori, i barlumi di una riflessione (che si presentano anche svariate volte nel corso di una giornata) sfuggono senza lasciare segno, come su una terra argillosa o sabbiosa che difetta di sedimentazione. Riflettere autobiograficamente significa immergersi in un costante gioco di specchi che serve non già a conoscerci in astratto, ma fenomenologicamente, per come ci percepiamo, imparando a prendere le distanze da noi stessi e a guadagnare un altro punto di vista.

La funzione principale dell’indagine autobiografica consiste possibilmente nell’aiutarci a lasciar sedimentare noi stessi, anche contraddittoriamente (almeno in apparenza), perché in questa pratica l’anticipazione di nuclei ancora non espliciti e le continue riletture di quanto già depositato quasi sempre coesistono. L’introspezione non è un processo lineare: fissarla serve ad oggettivare dei frammenti emersi dal caso, dalle circostanze, dal flusso spontaneo ed erratico dei pensieri, dal lavorìo della mente, dei sentimenti, dell’inconscio.

A questo scopo può servire l’ausilio di quelle che più volte abbiamo denominato «pratiche filosofiche». La riflessione autobiografica (individuale o entro gruppi di persone anche riunite senza conoscersi, o conoscersi bene) è una di tali pratiche. A questo scopo la scrittura regolare di un diario, o anche soltanto l’abitudine a fissare su qualcosa (non più necessariamente la carta) i nostri disordinati pensieri, fosse solo per annotare intuizioni o domande che non vogliamo lasciarci sfuggire, possono essere un utile strumento. Ma a precise condizioni.

«Any life is of interest», scrisse ormai molti anni fa Paul R. Thompson, il fondatore della storia orale. Per scrivere la trama che ha tessuto e continua a tessere l’esistenza dei comuni mortali, non occorre essere Casanova, Canetti, Simenon, Mandela o l’illetterato Vincenzo Rabìto, il cui diario,«Terra matta», è nel suo proprio genere un vero e proprio capolavoro. Nemmeno, per dialogare con noi stessi e svelarci agli altri, occorre essere Agostino d’Ippona o Rousseau.

La differenza tra questi grandi personaggi e noi comuni mortali consiste in questo: i primi hanno scritto la propria autobiografia figurandosi uno o più strati di interlocutori-lettori; a noi è chiesto di sforzarci di scrivere per noi stessi, senza darsi obiettivi, senza immaginare che quel lavoro di riflessione e di narrazione alla ricerca di uno dei tanti fili che possono raccogliere in unità una qualche vita, possa o debba essere letto da altri, individualmente o genericamente. Ciò detto, è solo leggendo le storie degli altri che possiamo imparare a ripensare le nostre. Ma non dobbiamo cercare per forza un modello, né illuderci velleitariamente che lo scrivere di sé equivalga alla «scrittura». La modestia è d’obbligo.

Non giova forzare la scrittura entro una trama narrativa, un ordine, una ricerca stilistica ed espressiva, a dinamiche di autocompiacimento. Serve all’opposto «lasciarsi andare» – per quanto è possibile – e «lasciar andare» la parola, seguendo lo stimolo delle associazioni. Potremo sempre «tornarci su» in un secondo momento, introdurre ripensamenti a lavori in corso, senza riscrivere da capo, ma giustapponendo la versione originale alle stesure successive. Quel continuo ritorno ci dirà qualcosa.

Nemmeno serve curarsi della forma narrativa (in prima o terza persona, avendo o non avendo un interlocutore, secondo un ordine temporale ecc.), e dell’omogeneità interna al diario. Non è necessario raccontare, se non quando il ritorno ai nodi del passato lo esige. Conviene esercitare la frammentarietà, riversare intuizioni tra loro incoerenti, matasse ingarbugliate da sbrogliare in seguito.

Il rischio peggiore è però la manipolazione, specie se inconsapevole, un attitudine romanzesca che dilata il nostro ego senza un vero costrutto.

Il diario è un alloggio ospitale: c’è posto per i ricordi e peri progetti, per le nostalgie e per gli slanci;per un bilancio dei successi, delle sconfitte, dei debiti nei confronti di altri e di quelli di altri nei nostri confronti; per indagare i nostri sentimenti, le relazioni, gli affetti, gli amori, le reazioni alle malattie proprie ed alla morte altrui, la meditazione sulla nostra morte; per ricostruire le vicende familiari, le emozioni vissute, i passaggi decisivi e i momenti culminanti, le aridità, i grigiori, le zone opache e i vuoti.

Non dunque puerili ostensioni di buoni propositi, desideri, passioni e affetti, ma un severo, impietoso e serrato lavoro di scavo. Il diario tutto può essere meno che l’insulsaggine del «training autogeno». Mettere mano alle proprie vicende di vita e alle riflessioni esistenziali e filosofiche che ne conseguono, non chiede solo il coraggio della sincerità ma altresì il desiderio di decostruirsi e di lì sperimentare in continuo le tante possibili «ricostruzioni». Una forma di cura di sé come questa potrà aiutarci a trovare vie originali, a decantare passioni, risentimenti, ansie e umori, a facilitare la soluzione di alcuni dei nostri problemi, a schiudere momenti liberatóri. In ogni caso quel che otterremo è la capacità di ascoltarci e di ascoltare, per far risuonare in noi le voci e i punti di vista degli altri che ci nutrono nelle relazioni più significative.

Se poi sapremo allegare alle nostre riflessioni anche dei «materiali» costituiti da oggetti fisici, immagini o suoni, con i grumi affettivi che essi contengono e sottintendono, tanto di guadagnato. E almeno in questo un modello unico e insuperato è disponibile: l’amoroso e geniale «Museo dell’innocenza» di Orhan Pamuk.

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