“Strawberry fields for ever – Campi di fragole per sempre”. Così cantavano i Beatles negli anni ’60. Campi di fragole per sempre, per tutti e ovunque: il motivetto ben si adatterebbe allo scellerato disboscamento avvenuto lo scorso mese di gennaio su un ampio appezzamento collinare del Monte Bernasco per lasciare posto, si dice, a un bel campo di fragole e a un frutteto terrazzato… Una delle posizioni più incantevoli e ambite paesaggisticamente del comune di Varese, un balcone sui laghi e sulla catena del Monte Rosa, classificata dal Piano Regolatore come area boschiva, e quindi non edificabile, di colpo distrutta per fare posto a un frutteto e a un campo di fragole. Incredibile, ma vero. Cose da finire direttamente su Striscia la Notizia.
L’accaduto, ma soprattutto la visione dello scempio perpetrato, ha lasciato basita la gran parte dei varesini, almeno quella maggioranza che non si identifica nel “partito del cemento”, tanto potente e presente – ahimè! – nella odierna realtà bosina. Ma chi si vuole prendere in giro? “A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”, affermava un noto personaggio politico italiano. Eh sì, perché c’è il timore che alle fragole seguiranno poi, in un futuro non tanto lontano, anche belle ville con vista mozzafiato sugli infuocati tramonti prealpini. E così un bel bosco inedificabile, diventerà per incanto un terreno con volumetria da sfruttare, centuplicando il proprio valore commerciale.
Il timore è lecito, visto quello che è accaduto e sta accadendo al nostro territorio, svenduto ai Piani attuativi d’intervento o barattato con esosi oneri d’urbanizzazione, divenuti oggi una delle principali fonti d’introito per le casse comunali. Ovviamente lo scempio è avvenuto con i necessari permessi e autorizzazioni. La Legge – si giustificano pilatescamente le autorità – lo consentiva; quindi tutti buoni e zitti!
E qui sorge il primo legittimo quesito. Ma che leggi sono quelle che hanno autorizzato un simile scempio? Inutile nascondersi dietro un dito o negare verità nascoste. Spesso, specie in campo urbanistico, si ha che fare con norme surrettizie e ingannevoli; leggi, per carità, forse buone nelle intenzioni, ma che nella realtà si traducono in strumenti legali per devastare il paesaggio. Basti citare che cosa ha prodotto in termine di scempi edilizi la legge regionale sul recupero dei sottotetti o il recente Piano Casa, approvato in tutta fretta nel nome del rilancio immediato dell’edilizia e dell’economia nazionale – uno scopo nobile per giustificare lo si trova sempre – e che di fatto si traduce molte volte in un bel regalo alla speculazione edilizia.
Anche per il Monte Bernasco ci si è appellati alla norma che può consentire il cambio di destinazione d’uso di un terreno. Nel caso specifico la trasformazione di un bosco in un suolo a sfruttamento agricolo. E la competenza, trattandosi di bosco, ricade per legge sulla Provincia e non sul Comune, come la logica e il buon senso invece imporrebbero. Ci troviamo così ad avere due amministrazioni diverse competenti per il paesaggio sullo stesso territorio. Assurdo: alla faccia delle semplificazioni, delle uniformità di giudizi e dello snellimento burocratico.
Si è così dato via libera alla distruzione di un bosco per farne un campo di fragole. E adesso hanno un bel dire gli enti che hanno autorizzato il taglio raso che si faranno garanti dell’attuazione del progetto, che lì ci saranno solo fragole e non ville panoramiche… Intanto un’area boscata, l’ennesima, se n’è andata e non tornerà più. A giustificazione tecnica del taglio si porta lo stato di degrado in cui versava l’area: “In fondo si trattava solo di un brutto bosco, non curato, non pulito, con molte piante deperite, secche e malridotte, forse anche pericolose…”. Nessuno mai, però, per decenni aveva speso un euro per curarlo e metterlo in sicurezza. Che sia stata una voluta trascuratezza per trovare poi una “valida” motivazione per ottenere il permesso di taglio? Sorge anche questo dubbio. Ma un bosco, seppur malconcio, è sempre un bosco; a livello ecologico per le nostre città il suo peso è molto più importante di un qualsiasi giardino storico artefatto, di cui Varese è tanto ricca.
Per formarsi non ci mette un’estate, come fanno le fragole che si piantano e in sei mesi danno il frutto e poi via. Un bosco deve crescere, fortificarsi, espandersi, divenire maturo, produrre novellame che sostituirà il vecchio, lasciare spazio ad arbusti e fiori primaverili e autunnali, offrire alloggio e rifugio per la fauna, grande e piccola. Insomma un bosco per diventare tale ci mette cent’anni, non un anno. E quando lo si distrugge, si butta via un secolo di vita pulsante, di storia, di fatiche. Un tempo per ogni nato si piantavano dieci castagni che avrebbero alimentato in futuro la famiglia del neonato; è così che i nostri monti brulli, le nostre anonime colline sono diventate i boschi che ci circondano e ci abbracciano, che ci allietano e che costituiscono la spina dorsale del nostro paesaggio prealpino.
Poi arriva qualcuno che giudica il bosco brutto, degradato: “Che ci fa questo sconcio in questo bel quartiere residenziale?”. E ne autorizza la distruzione; la si chiama però “cambio d’uso”, termine – come si conviene all’odierna società – delicato, tecnico, da manuale dei geometri, che non disturba, che semplicemente assimila una connessione vivente, qual è un bosco, al cambio d’abito. Insomma perché mai si protesta? Al posto dei castagni, dei frassini, degli aceri di monte, dei ciliegi selvatici ci saranno tante belle fragole; sempre di vegetali si tratta!
E invece no! Ben vengano le proteste e le prese di posizione, civili naturalmente. Giusti e sacrosanti i timori dei residenti, specie di quelli a valle del declivio disboscato, che si interrogano sui futuri, probabili dissesti idrogeologici che l’area subirà. In fondo non ci vuole un agronomo o un forestale per capire che le radici delle fragole sono diverse da quelle di un faggio o di una robinia. Giusta e sacrosanta l’indignazione di chi si vede privato di uno spazio naturale dove era bello osservare le stagioni che cambiavano con il mutare del fogliame, dove era bello ascoltare l’usignolo o la civetta o il ticchettio del picchio al mattino o da dove, con sorpresa, si vedevano uscire un riccio o una lepre. Giusto indignarsi a voce alta e forte perché questo scempio sia l’ultimo.
L’indignazione, la protesta, la voce alta e forte talvolta sono salutari e necessarie; chi non lo fa o è complice o è preda dell’indifferenza, uno dei peggiori mali che l’odierna società ci ha dato.
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