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Storia

UNGHERIA/2 UN ANNO DI SVOLTA

ENZO R. LAFORGIA - 27/10/2016

Il leader Imre Nagy, giustiziato dopo la rivolta del 1956

Il leader Imre Nagy, giustiziato dopo la rivolta del 1956

C’è un tempo della storia, che tende più facilmente ad imprimersi nelle coscienze. È quello che si condensa in un avvenimento, in un evento dalla forte carica emotiva e simbolica. E spesso si è portati ad accostarsi a questi accadimenti con lo strumento del microscopio: l’episodio viene ingrandito, indagato con la pazienza certosina e la devota passione del microbiologo. In questo modo, particolari e dettagli in ombra vengono illuminati. Ma lo sguardo, che acquista in profondità, perde in estensione.

La storia del Novecento, soprattutto per noi sopravvissuti al secolo scorso, è ricca di eventi che hanno saputo concentrare su di sé emozioni, sentimenti e passioni. Tuttavia, mai come per la storia del Novecento è indispensabile assumere una prospettiva globale.

Uno di quegli eventi che mantengono intatta, pur a distanza di sessant’anni, tutta la loro potenza suggestiva ed emozionale è quanto accadde a Budapest e in Ungheria tra il 23 ottobre e il 4 novembre del 1956. Il 9 ottobre scorso, lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa ha ricordato, in una intervista rilasciata al quotidiano «La Stampa» di Torino, di quando, in quello stesso 1956, lui allora ventitreenne avesse deciso di iscriversi al Partito comunista italiano. La sua decisione fu determinata dalla svolta rappresentata dal XX Congresso del Pcus, inauguratosi a Mosca il 14 febbraio di quell’anno, durante il quale Krusciov di fatto archiviò definitivamente l’esperienza staliniana. Ma in novembre, quanto accaduto in Ungheria, l’arresto e la condanna a morte del presidente del Consiglio ungherese Imre Nagy, spinsero lo stesso Alberto Asor Rosa a dare l’addio al partito al quale aveva aderito appena pochi mesi prima.

L’impatto di quell’evento è diventato, quindi, parte delle memorie soggettive, producendo effetti duraturi e profondi nelle coscienze individuali (a quell’epoca, oltre Asor Rosa, altri cento intellettuali vicini al Partito comunista italiano firmarono un manifesto in cui veniva duramente criticato l’intervento militare sovietico, mettendo così apertamente in discussione la linea dettata da Togliatti).

Ma proprio i fatti di Ungheria rappresentano benissimo il caso di un episodio che, per la sua completa comprensione (a distanza di sessant’anni!), richiede un approccio storiografico di tipo globale. Tale possibilità ci è oggi offerta da un volume di Luciano Canfora uscito proprio in questi giorni per l’editore Sellerio: 1956. L’anno spartiacque. Con il consueto rigore scientifico e con lo stile fresco e godibile, cui ci ha abituato da molti anni, Canfora ci aiuta a comprendere quanto avvenne nell’Europa centro-orientale, collocando quel singolo episodio in una fitta trama di eventi che rendono quell’anno, il 1956 appunto, un anno di svolta nella storia del nostro pianeta (e non solo europea).

I fatti di Ungheria sono noti: il 23 ottobre del 1956, una manifestazione organizzata dal «Circolo Petöfi», organizzazione studentesca separatisi dal Partito comunista, reclama elezioni pluripartitiche; gli incidenti esplosi in città, spingono Imre Nagy, appena nominato capo di un governo diretto dal Partito comunista, a fare un appello alla pacificazione; il 26 ottobre cambia la composizione del governo, sempre presieduto da Nagy, che accoglie uomini vicini alle posizioni degli insorti; il 30 ottobre Nagy annuncia l’abolizione del sistema a partito unico, forma una coalizione di partiti diversi, invita il comando sovietico a ritirare le truppe di stanza in Ungheria e ordina la liberazione del cardinale Mindszenty dal domicilio coatto (il cardinale era stato uno strenuo difensore dei feudali privilegi della Chiesa cattolica, che, tra l’altro, rappresentava il più grosso proprietario terriero del Paese); il 31 ottobre, il governo ungherese annuncia l’uscita dal Patto di Varsavia e proclama la neutralità dello Stato (il cardinale Mindszenty chiede il ritorno in patria di Otto di Asburgo!); viene aperta la caccia all’uomo, alla ricerca di quanti fossero stati legati al vecchio regime (anche semplici militanti comunisti vengono linciati per le strade); nella notte del 1° novembre, János Kádár e Ferenc Münnich, rispettivamente segretario del Partito comunista e ministro degli Interni, si rifugiano presso l’ambasciata sovietica, lasciano il Paese e lanciano un appello ai sovietici affinché questi intervengano per ristabilire l’ordine; all’alba del 4 novembre, viene scatenata l’Operazione Turbine, che prevede un attacco concentrico della capitale ungherese con l’impiego di grandi colonne di carri armati. In conclusione, nella capitale e in tutta l’Ungheria, si conteranno circa 2.400 morti. Dalla fine del secondo conflitto mondiale, non si erano mai registrati combattimenti così prolungati sul suolo europeo. In conclusione, l’Ungheria era stata lasciata sola da tutti.

Ma questi, appunto, sono i fatti, nudi e crudi, che accadono in Ungheria.

Proprio negli stessi giorni, il 29 ottobre, le truppe israeliane avevano attaccato l’Egitto, invadendo la penisola del Sinai e procedendo verso il Canale di Suez. E proprio mentre l’Urss si preparava ad invadere l’Ungheria, lo stesso governo di Mosca inviava un messaggio ai paesi non allineati con il quale condannava l’attacco israeliano, che godeva del sostegno diretto di Francia e Inghilterra, e promuoveva una iniziativa della sua delegazione presso le Nazioni uniti, affinché fosse fermata l’invasione dell’Egitto. Il giorno dopo l’invasione dell’Ungheria, il 5 novembre, le truppe anglo-francesi completarono l’invasione del Sinai e giunsero a controllare il Canale.

Tale atteggiamento apparente schizofrenico, caratterizzò in realtà l’azione politica dei paesi occidentali e dell’Unione sovietica negli anni Cinquanta. L’Unione sovietica, da un lato appoggiava le lotte di liberazione nazionali o le iniziative di emancipazione delle ex colonie; nello stesso tempo reprimeva ogni slancio nazionalistico dei paesi satellite. Gli Stati Uniti, insieme alla Francia e all’Inghilterra, da un lato erano impegnati nella repressione di ogni istanza di emancipazione promossa nel mondo delle ex colonie; nello stesso tempo incitavano alla ribellione i paesi satellite della galassia sovietica.

In fin dei conti, sembra aver ragione Canfora (la cui ricostruzione è ricchissima di informazioni, tenute insieme in una solida narrazione): «Un filo continuò a collegare scelte sovietiche e scelte americane. I sovietici poterono indisturbatamente agire a Budapest, e per l’America questo era un dato che non poteva esser messo in discussione, i sovietici ingiunsero agli anglo-francesi di ritirarsi da Suez e gli americani diedero loro pieno appoggio, anzi fu la voce statunitense la più autorevole per imporre loro di ritirarsi».

La ricostruzione critica di quella storia, di quegli episodi, lascia aperte alcune riflessioni, che Canfora affida alla pagina conclusiva del suo libro: ha avuto un senso una repressione così dura, considerando il fatto che quella esperienza storico-politica (e cioè il comunismo sovietico) sarebbe durata ancora, appena, una trentina d’anni?

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