In un dopocena con pingue offerta televisiva, occasioni cittadine d’intrattenimento, pioggia, nebbia e invito alla pigrizia domestica, al convento francescano di viale Borri si fa il sold out per un dibattito sulla riforma costituzionale. Modera Gianfranco Fabi, discutono Robi Ronza che sostiene il no e Giuseppe Adamoli schierato per il sì. Portamento vintage dei presenti, ma ci sono anche chiazze di frizzante giovanilismo e/o di tarda gioventù. Platea curiosa, attenta, partecipe. Toni sempre, comunque, assolutamente soft, come raccomandato da padre Gianni nell’incipit di benvenuto.
Vince la civiltà d’un discorrere pacato, del confronto virtuoso, dell’idea che ci si può dividere nelle convinzioni e però non sulla concordia. Mille (diecimila) miglia di lontananza dalle sterminate bassure dei talk show, dalle rozze derive populistiche, dal cialtronesco piazzismo un tanto a battuta. Morale: circola la voglia di capire, il desiderio dell’informazione, la maturità dell’essere cittadini consapevoli anziché ignoranti/creduli. Non è vero che la partigianeria s’impone a prescindere, che il dialogo sta nelle intenzioni invece che nelle cose, che siamo una comunità nazionale (locale) solo per modo di dire. E non nel modo di fare.
Forse dell’Italia e degl’italiani, di noi italiani, abbiamo un’impressione sbagliata. Suggerita dall’artificiale/artificiosa mediaticità in cui viviamo, dallo sloganismo che prevale sui ragionamenti, dal dominio dei botta e risposta (meglio: botta e botta) che ìmpera sui social e fa notizia, tendenza, persino filosofia. Con tante scuse alla filosofia, così stolidamente tirata in ballo nella danza della superficialità.
Nel convegno alla domus cappuccina non è stato importante tirare una conclusione sul prevalere delle ragioni del sì o del no. È stato importante assistere alla plastica dimostrazione che la politica esprime un suo alto profilo, se la s’intende alla maniera giusta. Di più: è riecheggiata, nell’ora e un quarto di relazioni e interventi del pubblico (basta poco tempo quando si ha molto da dire: paradossale, ma reale), la lezione dell’indimenticato Giandomenico Romagnosi, quanto mai fashion nell’attuale frangente epocale.
La lezione è quella contenuta nel saggio “L’associazione dell’etica, della politica e del diritto”. Roba d’un ottocentista di stampo illuministico e peraltro di forte attualità. In breve: il maestro sosteneva che il rapporto fra i tre (diritto, politica, etica) dev’essere ben distinto, ma affatto disgiunto. A ciascuno dei tre le sue scelte, i suoi percorsi, la sua autonomia. A tutti e tre il dovere di non scordare l’opportunità di fondersi con gli altri due nell’interesse dell’uomo. Specialmente se si pensa (se si crede) che l’uomo sia l’immagine di Dio.
Ecco, quando parliamo d’una materia delicata come la carta istitutiva della Repubblica, ovvero un documento di valori da definire laicamente sacri, ci dovrebbe sempre esser chiaro questo suggerimento. Rappresenta il capitale umano/storico lasciatoci in eredità non da un Paese. Da tanti Paesi. Non da una generazione. Da tante generazioni. Non da una società. Da tante società. Non da una fede. Da tante fedi. Quella cristiana sa da duemila e rotti anni come declinarne le voci, prima e dopo che ne scrivesse il Romagnosi. Grazie a Fabi, Adamoli e Ronza per avercelo ricordato.
You must be logged in to post a comment Login