In questi ultimi giorni, anche in relazione all’assegnazione del premio Nobel, si è parlato di letteratura. Come spesso capita nel vociare mediatico si è detto tanto, forse troppo: slogan sdoganati come approfondimenti, semplificazioni a effetto e altro ancora e non sempre rispettoso del consiglio valido per gustose ricette, il cosiddetto q.b. Il quanto basta, però, non esonera a non interrogarci sulla funzione della letteratura.
Ognuno di noi, specialmente se lontano dal mondo della scuola, ha, come un Pollicino che non vuole smarrirsi, punti di riferimento e si aggrappa ad aforismi custoditi nello scrigno della personale memoria. Per Oscar Wilde la letteratura è quanto non viene letto, per Roland Barthes essa non permette di camminare ma permette di respirare e, se accettiamo una delle definizioni donateci da Manganelli, la letteratura deve essere un gesto provocatorio.
Se utili possono essere le sintetiche affermazioni, quello che deve davvero contare (ogni tanto si deve ricorrere all’ovvietà) sono i testi generati da uomini e donne che hanno creduto nella forza della parola scritta. Magari sono autori lasciati in ombra nei percorsi scolastici, se non addirittura bocciati da una certa cultura o nascosti in nicchie segrete per pochi appassionati.
Per questo motivo, quasi come rimedio omeopatico, è vitale un esercizio di ricerca di chi, forse poco letto o conosciuto, è stato capace con le parole di suscitare reazioni e di ossigenare la cultura “laureata”. Un esempio? Carlo Dossi. Anche se per ragioni anagrafiche (e ovviamente non solo per questo) non avrebbe mai ricevuto il premio Nobel, istituito partire dal 1901, è profondamente ingiusto non leggerlo e non conoscerlo.
Non c’ è dubbio che qualcuno sa che per qualche tempo a partire dal 1875 si era trasferito da Milano, in “campagna” a Induno Olona, dove in una parte della villa del conte Porro, in affitto, visse isolato e incominciò a scrivere uno dei suoi testi più ricordati, Desinenza in A. A onor del vero il comune di Induno Olona nel 1998 gli rese omaggio con un convegno i cui atti – pare – non esistono o per lo meno non sono reperibili ai più. Eppure Dossi, nato a Zenevredo, in provincia di Pavia, nel 1849, fondatore a diciotto anni della Palestra letteraria, intorno alla quale si raccoglieva la Scapigliatura milanese, e coraggioso scrittore che pubblicò a soli diciannove anni il suo primo libro, intraprendendo non certo per convinzione la carriera ministeriale a Roma, diventando anche console generale a Bogotà, è uno scrittore dal linguaggio “fragante ma spinoso”, puzzle di termini dialettali e di neologismi, zampillanti da una sintassi spesso contorta, con incredibile forza espressiva, anzi espressionistica.
Genialmente capace di provocare anche con forzature ortografiche, quali aqua, un bel qua’, accentato, icastico nell’uso di termini come fannulloni. Ma la sua lingua non fu mai un gioco letterario e espediente retorico, perché era funzionale a una scrittura animata da polemica. Lui che amava vivere isolato, quasi incapace di vivere una vera vita di relazioni sociali, sapeva aggredire la società, con un umorismo amaro. Non è facile leggere Dossi, obbliga il lettore a battagliare con il testo. Le costruzioni di personaggi catturati anche nei loro atteggiamenti negativi (esempio la galleria di personaggi nei Ritratti umani, dal calamajo di un medico) possono essere non adatte a chi ama farsi coccolare dalle pagine di una certa letteratura ma sa accettare sciabolate del tipo “Mondo felice, se chi, non sapendo parlare, sapesse almeno tacere!… E sapesse amare con coraggio la letteratura.
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