Come scrive l’enciclopedia Treccani: “Nella prima metà del XII secolo due fazioni si contesero il trono in Germania: i guelfi e i ghibellini. I ghibellini volevano rafforzare la monarchia contro l’invadenza del papa e contro il particolarismo feudale, i guelfi invece erano favorevoli a Roma. L’elezione di Federico I Barbarossa pacificò la scena tedesca, ma la contrapposizione tra guelfi e ghibellini si fece allora viva in Italia, assumendo caratteristiche del tutto nuove”.
La contesa si trasferì in particolare a Firenze. I guelfi furono così quella fazione politica che sosteneva la supremazia pontificia nella lotta tra Impero e Papato per il dominio di Firenze: solo il Papa poteva essere legittimato a governare, dal momento che era stato investito direttamente da Dio e solo lui aveva il potere di guidare gli uomini verso gli ideali di giustizia e di correttezza. I ghibellini invece erano coloro che nella lotta tra Papato e Impero, sostenevano la causa e la supremazia dell’Imperatore e non volevano l’intromissione della Chiesa nella politica di Firenze. Ma le divisioni non si fermavano qui perché c’erano anche i guelfi bianchi, favorevoli a soluzioni di compromesso e i guelfi neri, radicalmente integralisti.
Guelfi e ghibellini sono così entrati nel linguaggio comune per indicare un carattere che sembra essere connaturato alla storia italiana. La tendenza a dividersi in due fazioni. L’elenco potrebbe essere infinito e nei campi più diversi: laici e cattolici, interisti e milanisti, amanti del mare e della montagna, mangiacarne e vegetariani, varesini e varesotti.
Ormai non c’è avvenimento dove non si schierino due giudizi contrapposti: visto da destra e visto da sinistra oppure declinati secondo tante altre prospettive.
Nei giorni scorsi non c’è stato un giornale dove il Nobel per la letteratura a Bob Dylan non sia stato commentato da favorevoli e contrari. E si trova sempre qualcuno pro e qualcuno contro sia che si tratti di scegliere nella banalità del quotidiano (carne o pesce?), sia che siano in gioco grandi temi etici e morali come l’eutanasia. Ne abbiamo avuto la prova qualche settimana fa quando in Belgio è stata permessa la morte procurata di un minorenne e i giornali si sono puntualmente divisi tra favorevoli e contrari.
Mai come in questo periodo quindi guelfi e ghibellini sono tornati prepotentemente alla ribalta. E fino a un certo punto il confronto tra posizioni diverse, soprattutto quando diventa dialogo costruttivo, non può che essere visto positivamente.
Ma si ha quasi l’impressione che sui temi più importanti rifugiarsi nella logica di mettere sullo stesso piano favorevoli e contrari assomigli molto all’atteggiamento di un Ponzio Pilato che se ne lava le mani. È ancora di più si ha l’impressione che si voglia sottilmente far passare l’idea che il sì e il no abbiano sempre e comunque la stessa dignità, lo stesso valore, la stessa validità formale e sostanziale.
È il trionfo del relativismo, del pensiero debole, dei valori evanescenti. È la logica di chi trasforma ogni dibattito politico, sociale, culturale in uno scontro dialettico o in una gara sportiva da cui comunque deve uscire il vincitore.
In questo scenario non può che essere compreso il grande dibattito che ci accompagnerà fino all’inizio di dicembre tra il sì e il no alla riforma costituzionale. Ma se nel caso del referendum costituzionale la contrapposizione è connaturata alla stessa logica della consultazione (e quindi deve essere riconosciuta loro pari dignità senza offese, minacce o slogan ultimativi) in molti altri casi ci si aspetterebbe il coraggio di rifiutare le scelte pilatesche e inconcludenti. Scelte apparentemente improntate alla libertà di pensiero, ma concretamente motivate dalla sottile volontà di accontentare tutti e non scontentare nessuno.
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