Dopo l’uscita di Berlusconi dalla ribalta della politica e l’avvento del “governo dei tecnici” di Monti, il quadro della politica italiana si sta trasformando. Le appartenenze costruite in seguito al crollo del “sistema dei partiti” della prima Repubblica, appoggiate alla fragile impalcatura dei “carismi” personali, ai riti e alle liturgie collettive, non hanno resistito all’usura dell’inerzia, alla cattiva abitudine di promettere e di non realizzare.
Il Paese è nuovamente precipitato in una crisi economica e morale che rimanda direttamente a quella di vent’anni fa quando gli italiani reagirono alla dilagante corruzione risultante dal connubio tra politica e imprenditoria ma, invece di riformare i partiti ponendoli, con il riconoscimento giuridico, sotto il controllo della legge, preferirono lasciare spazio alla sperimentazione di “partitoidi” a carattere personale dove i cittadini sono rappresentati ma non contano nulla.
Il governo Monti, pur non avendo alle spalle un sostegno parlamentare certo, ha lanciato alla classe dirigente una vera e propria sfida: dimostrare che per fare politica ci vuole una visione complessiva della realtà del Paese e dei nodi che bloccano il suo sviluppo; individuare i problemi più acuti da affrontare con provvedimenti settoriali ma non particolari, puntando sull’interesse generale invece che su quelli di gruppi e di lobbies.
Questo nuovo stile fatto di decisioni collettive, rapide e concrete, anche se impopolari, è stato apprezzato ed è risultato determinante per convincere l’Europa e i mercati che l’Italia è in grado di evitare il baratro in cui stava precipitando.
Questo nuovo tipo di “governance” ha dimostrato l’inconsistenza e l’inadeguatezza dei “partiti personali” che pretendono di rappresentare il popolo ma che in realtà impediscono la partecipazione dei cittadini.
Qualunque sia l’esito e la durata del governo dei tecnici, esso ha marcato una netta differenza rispetto all’esperienza precedente che invoglierà i cittadini a riposizionarsi nell’assetto elettorale.
Di fronte alla scelta di salvare il Paese o privilegiare le fazioni, il mondo politico si è diviso dimostrando che vi sono ancora riserve di responsabilità, mentre ferree alleanze come quella tra il PDL e la Lega o quella tra il PD e la galassia delle sinistre si sono sciolte come neve al sole.
Soltanto il movimento leghista sembra lontano anni luce da quel che accade e cerca di tirarsi in disparte da una situazione che peraltro ha contribuito a determinare per ritagliarsi un discutibile ruolo di partito regionale.
La Lega è un fenomeno socio-politico difficile da valutare sotto un profilo strettamente razionale.
A differenza di altri soggetti politici non rappresenta una posizione politico-culturale, non esprime una visione della società, non avanza delle proposte realistiche e articolate, tanto meno un programma coerente sulla base di una non superficiale analisi della società. La Lega propone solo degli slogan efficaci ma vuoti: è contro il centralismo statale ma non disdegna di occupare posizioni di governo e di sottogoverno; è per il federalismo e, alternativamente, per la secessione senza avvertire che le due ipotesi sono divergenti: il federalismo unisce e la secessione divide.
È un partito centralizzato e autoritario basato sul presunto “carisma” del capo, che è un sentimento collettivo ma anche temporaneo; difatti quando è entrato in crisi a causa della malattia del leader, il movimento si è trovato in una fase di convulsione per disputare l’eredità. Il “leghismo” è un aggregato di sentimenti e di risentimenti, di umori e di suggestioni, di simpatia e di antipatia, di appartenenza e di identità, cioè di fattori psicologici che coesistono in persone assolutamente diverse quanto a estrazione sociale e a livello di istruzione. Nonostante l’inconsistenza della proposta politica, la vacuità della sua decennale azione di governo, la crisi di “leadership” (Maroni è più accorto ma assai meno fantasioso di Bossi) e le faide interne, la Lega “tiene” nei sondaggi elettorali. È il capovolgimento della politica che si fonda sulla valutazione dei cittadini sui risultati effettivamente raggiunti e sulle aspettative future ma non sugli errori commessi e le evidenti incoerenze che persistono.
Questo coacervo di contraddizioni non può essere sciolto con dei ragionamenti, a cui il “popolo leghista” è refrattario, ma rimanda ad una spiegazione di tipo psicologico come quella proposta da Erich Fromm per spiegare l’adesione delle masse ai totalitarismi del secolo scorso. L’uomo moderno – spiega nel suo libro “Fuga dalla libertà” – ha conquistato la libertà che però lo ha reso isolato, ansioso e impotente.
Per superare questo intollerabile isolamento molti preferiscono fuggire verso nuove forme di autoritarismo e rifugiarsi nel conformismo della società consumistica di massa, in modo da sottrarsi al peso della responsabilità che accompagna sempre la libertà. L’alternativa è quella di progredire verso la piena realizzazione della libertà positiva fondata sull’unicità e individualità della persona.
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