Bisogna fare qualcosa: questa frase colpì nel profondo un ragazzo che nell’ottobre del 1944 aveva quasi 17 anni, periodo in cui altri giovani della nostra zona caddero sotto il fuoco dei nazifascisti. Lui, per fortuna, uscì indenne da quei terribili giorni dell’Ottobre Varesino di Sangue.
Il ragazzo, chiamiamolo così anche se allora, a quell’età, lui, come molti coetanei, già lavorava in fabbrica e aiutava la famiglia.
Le tragiche ore di quei primi giorni di autunno lo rafforzarono nella convinzione che fosse necessario combattere per la libertà così duramente messa alla prova nel ventennio fascista.
Vi dirò poi, alla fine di questo breve racconto, il nome e il cognome di questo giovane uomo, di cui scrivo a dimostrazione che si possono avere sedici, diciassette anni e si può aver capito la vita più di chiunque altro. Che anche a un’età da noi oggi ritenuta acerba, ci si può legare a stretto filo con la difesa dei diritti e a questo dedicare l’impegno di una vita.
Il ragazzo di giorno lavorava in fabbrica come operaio e alla sera frequentava i corsi professionali a Varese. A casa, il padre di idee socialiste ospitava riunioni clandestine a cui partecipava un misterioso compagno di Milano: né il suo nome né la sua storia dovevano essere conosciuti, e questa figura rimase impressa nella sua mente. Avrebbe ritrovato l’uomo, nome di battaglia Libero, sfigurato dalle percosse nelle cantine della Villa Dansi, insieme a lui e ad altri, quando fu arrestato dalla GNR nei fatidici giorni del citato ottobre.
La nostra provincia, ricca di industrie, era stata attraversata da scioperi, iniziati nel dicembre del ’43 e continuati nei successivi mesi del ‘44. Nella fabbrica dove il giovane lavorava si verificò uno sciopero spontaneo al seguito di qualcuno che aveva pronunciato una frase dal valore inestimabile: “Bisogna fare qualcosa”.
Qualcosa per il ragazzo fu il coraggio di intervenire a prendere le difese dei compagni di lavoro, di protestare perché si aveva fame, fame di pane, di pasta e di riso, di tutto. Il proprietario della fabbrica concesse agli operai un supplemento di paga, ma fuori busta, per non destare sospetti nella polizia e nei tedeschi.
Il primo passo era fatto!
Da quella fabbrica però il ragazzo si dovette allontanare: troppo esposto! Lavorò nei campi e nelle stalle presso uno zio contadino e alla sera avrebbe continuato i suoi studi professionali. Partecipando alle attività clandestine di casa sua, veniva incaricato di svolgere compiti legati alla preparazione e alla diffusione di volantini, soprattutto nei luoghi notoriamente frequentati dai fascisti.
In quanto giovane e veloce negli spostamenti venne reclutato per una rischiosa operazione da svolgere in quel di Azzate: recarsi in bicicletta a ritirare due cariche esplosive che sarebbero state collocate in seguito, da altri, nel vicino aeroporto. In quell’occasione conobbe Remo, nome di battaglia di Walter Marcobi, giovane che operava proprio in quella zona e che di lì a poco sarebbe caduto sotto il fuoco fascista. Di Remo lo colpirono lo sguardo e il carisma dei gesti.
Ma giungiamo ai giorni del tragico Ottobre di Sangue. Una mattina, era il 5 ottobre, il giovane passa dalla segreteria della scuola in Varese per confermare l’iscrizione. Si attarda a discutere di politica con i compagni del suo corso: alcuni di loro sono confusamente contrari al fascismo ma sostengono che di questi tempi è meglio non esporsi.
Parole profetiche perché di lì a poco il ragazzo, in attesa dell’ora dell’appuntamento al cimitero di Giubiano con un partigiano, si reca ad una trattoria della zona per salutare un compagno di lotta.
Ci troverà invece due militi fascisti in borghese che lo arrestano e gli sequestrano la cartella di pelle, regalo di uno zio. Dentro c’è un volantino antifascista, scritto di suo pugno, pronto per essere riprodotto a ciclostile. Viene condotto a Villa Dansi dove seguono vari interrogatori, uno diverso dall’altro per confonderlo, e le domande sono intervallate da pugni, spintoni e calci. Perché l’affronto più grave per i fascisti è che sia solo un ragazzetto come lui a osare contro di loro, a essere diventato un “traditore della patria”.
Avrà la presenza di spirito di inventare una versione dei fatti semplificata in modo da evitare il coinvolgimento di altre persone.
In questa cantina-prigione resterà diverse settimane, proverà paura e sconcerto, ansia e angoscia al pensiero della famiglia che lo sta cercando, ma incontrando uomini più grandi di lui che hanno già intrapreso la via della lotta partigiana, deciderà in modo definitivo che non ci sono alternative: bisogna fare qualcosa!
Erano i giorni, fuori dalla Villa Dansi, detta Villa Triste, dei morti dell’Ottobre di Sangue.
Al XXV aprile del 1945 mancavano ancora sette lunghi, difficili mesi.
Il giovane fu liberato il 29 novembre da un ufficiale tedesco legato alla Resistenza, Kurt Caesar, che lo prese in consegna per un trasferimento, che ovviamente non avvenne mai, al Tribunale Speciale di Verona. Aveva compiuto 17 anni cinque giorni prima, il 24 novembre.
Il ragazzo di cui ho scritto era Angelo Chiesa, per lunghi anni presidente di Anpi, uomo che non venne mai meno alla promessa di “fare qualcosa”: nel partito in cui militò, nel Consiglio provinciale e poi in quello regionale dove ricoprì gli incarichi di consigliere, negli ambiti politici e culturali che ha frequentato fino agli ultimi mesi della sua lunga vita di uomo buono e giusto. Vicenda umana che si è conclusa nel luglio di questo 2016.
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