“Pronto soccorso Ermanno Montoli”. Si chiamerà così e per sempre il reparto d’emergenza e di prima accoglienza dell’Ospedale di Circolo di Varese, dal nome del medico, dirigente e primario che per una quarantina d’anni almeno – dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Novanta del Novecento – ha caratterizzato con la sua presenza, con la sua silenziosa umanità e con la sua fertile generosità la vita operativa di questo reparto. Che anzi, proprio lui volle – a cavallo tra il 1963 e il 1964 – e chiese che venisse collocato in quel padiglione del “vecchio” ospedale, così noto a centinaia e centinaia di varesini, nelle sventure e anche nel viatico di sollievo che talvolta solo lo sguardo attento di un medico amico può dare, realizzato in quell’epoca grazie alla munificenza della famiglia varesina Bassani-Antivari. Un reparto completo: con una sua équipe, posti letto a disposizione, il primo centro di raccordo con tutti gli altri reparti dell’ospedale. E non una “cameretta” dove medici a turno, per lo più internisti, prestavano la loro opera. Una vera novità, allora: ben più di mezzo secolo fa.
Credo – senza fare torto a altri luminari che anche di recente hanno illustrato la scienza medica varesina – che Ermanno Montoli, mancato la primavera scorsa all’età di 88 anni, possa essere associato a grandi medici del passato: pensiamo a Luigi Sacco, che abitava nel cuore della città, in una vecchia casa che sorgeva dove in seguito fu costruita la sede della Banca d’Italia, tra i primi da noi a combattere il vaiolo con la pratica delle vaccinazioni; a Giulio Bizzozero, considerato il “padre dell’istologia italiana”, e anche a Scipione Riva Rocci che pur non essendo di Varese qui esercitò l’arte medica. Insomma, solo uno o due uomini così nascono nell’arco di un secolo e il destino riserva loro un tale privilegio di competenza, di distinzione. Pensiamo di non esagerare. Abbiamo avuto la fortuna di conoscere il dottor Montoli, di una ventina d’anni più giovani di lui, e di avergli anche voluto bene in conseguenza del nostro lavoro di cronisti; io poi destinato per una vita a raccogliere le notizie dell’ospedale e, dunque, del pronto soccorso.
Ermanno Montoli, i suoi medici assistenti, i suoi infermieri lo chiamavano “il Capo”, e anche noi cronisti. Alto, massiccio, una presenza che da sola incuteva rispetto, e anche un po’ di timore, però subito stemperato da un’innata bonomia, arrivava in reparto molto presto, ogni giorno che il buon Dio mandasse sulla terra: Fatti trovare qui domattina alle sette e mezzo… E se ne andava la sera, dopo tredici, quattordici ore di lavoro. Per ogni evenienza, cronistica o no, gli si telefonava e rispondeva: c’era sempre. Quando la necessità lo richiedeva – e chi conosce il pronto soccorso sa di che si parla – non esitava a girare nelle salette di cura e di emergenza, a tastare pance, a compilare referti, a ridurre fratture, a ingessare braccia e gambe rotte. Affrontava qualsiasi caso con una freddezza che però era anche sicurezza, mai esternava disagio o preoccupazione. Teneva le mani dietro la schiena, abbassava lo sguardo, dava consigli e – spesso – interveniva di persona. Credo che almeno la metà della popolazione varesina abbia avuto a che fare con lui, e che ne abbia conservato nel cuore la memoria.
Ermanno Montoli era stato forgiato dalla vita: la morte della mamma quand’era ancora studente liceale; poi quella dei due fratelli più grandi; la perdita dell’amata figlia Cati, che morì lasciando tre figliolette, di cui una appena data alla luce. Una volta a riposo scrisse un libro di ricordi molto bello: “Il mio pronto soccorso”, suo e di tutti noi. Il contenuto è stato ripubblicato qualche settimana fa, per le edizioni Pietro Macchione, con in apertura alcune sue noterelle di “Puro varesino”. Sì perché Ermanno Montoli era nato a Lozza, ma a cinquecento metri dal confine comunale, e all’età di cinque anni era venuto ad abitare con la famiglia in via Montorfano, una laterale di viale Valganna, nella cascina dei Campanàt.
Lì, nella zona dell’Ippodromo, aveva vissuto gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, essendo anche testimone di alcune vicende di guerra che proprio nel piazzale dell’Ippodrono di Varese avevano avuto il loro tragico epilogo.
La mamma, già minata dalla malattia, morì nel maggio del ’45 e fu sepolta nel cimitero di Lozza. Alcuni operai – ha scritto Montoli in uno dei suoi racconti – lo riconoscevano perché la mattina, recandosi presto al lavoro, lo trovavano addormentato sulla “mura” del cimitero, dove la sera prima s’era recato in bicicletta per colloquiare seduto sulla tomba della mamma. E poi, dopo l’università, dopo tanti inenarrabili sacrifici essendo anch’egli figlio di operai, lo ritrovarono al pronto soccorso del Circolo. Il “dutùr”. Il nostro indimenticabile, caro dutùr.
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