Parlare di Francesco De Gregori come “cantautore impegnato” – definizione che oggi gli farebbe fare un salto sulla sedia, tanto la considererebbe assurda e sbagliata –, un tempo, trentacinque, quarant’anni fa, sarebbe potuta apparire invece normale e quasi scontata.
Molto poco, del resto, lo stesso De Gregori faceva per smentire l’assunto. Se ne stava chiuso nel suo empireo, forse anche un po’ sdegnoso di quel che gli succedeva intorno. Allo stesso modo di un altro grande poeta e cantante, Fabrizio De André, pagava il prezzo della sua timidezza e della sua ritrosia a presentarsi sui palcoscenici per il grande pubblico; ma in modo del tutto diverso Francesco De Gregori si presentava rispetto a Lucio Dalla, il quale non trascurava la ribalta nazional-popolare, come per esempio quella della Tv e del Festival di Sanremo.
E diciamo De André e Dalla soltanto per citare due autori cui, nel corso degli anni, Francesco De Gregori si accompagnò, stringendo un particolare e significativo sodalizio artistico. Tralasciamo altri contatti, che pure sarebbero potuti risultare interessanti, se fossero avvenuti, come quelli con un Francesco Guccini, che si affermò nella stessa epoca di De Gregori – gli inizi degli anni Settanta – o con un Paolo Conte, il più grande chansonnier-poeta italiano del Novecento, arrivato però più tardi al successo e alla personale notorietà, più o meno alla fine degli anni Ottanta.
Dieci anni prima di questa seconda epoca – nel 1976 –, in occasione di un suo concerto al Palalido di Milano, De Gregori fu pubblicamente “processato” da alcuni componenti delle aree extraparlamentari e antisistema. “La conseguenza immediata – ha raccontato Francesco De Gregori – fu che per un po’ smisi di suonare. Quella tournée, che doveva durare per altre trenta date, si arrestò. Presi quella decisione perché temevo che la cosa si sarebbe potuta ripetere…”. Gli extraparlamentari avevano contestato a De Gregori di essere stato l’autore di “Buonanotte fiorellino”, giudicata canzone borghese e pochissimo – a cominciare dal titolo – impegnata a sinistra. Cogliamo lo spunto di questo episodio da un recente libro, “Passo d’uomo”, che De Gregori ha scritto con Antonio Gnoli, già responsabile delle pagine culturali di Repubblica, e pubblicato nella collana “i Robinson”, di Laterza.
Non c’è che compiacersi. Con De Gregori per la sua semplicità e anche, oggi più di ieri, per la definizione che egli ha voluto dare della sua arte. È un ragionamento, diciamo così, liberale e crociano che poco o nulla concede all’impegno politico-partitico e alla “struttura”, ma che si basa invece sull’antintellettualismo (così lo chiama lo stesso De Gregori) e sull’emozione.
Francesco De Gregori, che pure non rinnega nulla del suo “essere stato” dice ancora: “…Se devo raccontare ‘Alice’, scritta nel 1971, e nessuno sa cosa voglia dire che ‘Alice guarda i gatti e i gatti muoiono nel sole…’, rispondo che in quel momento era ciò che volevo dire… È qualcosa che nasce dal cuore e dalla tua urgenza di dire quella cosa esattamente in quel modo… Mi viene in mente il mio rapporto con le grandi opere d’arte. Se guardo un quadro di Van Gogh, di Vermeer o di Goya, non sto a farmi tante domande… Se inizio a interrogarmi… l’opera si impoverisce… E se questo è vero per Goya figurati se non è vero per ‘Buonanotte fiorellino’…”.
Beh, alleluia e grazie Francesco De Gregori, cantautore, artista, poeta.
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