Questo articolo riprende nell’impianto, con minime aggiunte e varianti, il testo di un mio intervento scritto a una conferenza sul tema dell’anzianità attiva tenutosi a Varese il 22 settembre. Penso che rientri a pieno titolo nei temi di questa rubrica. La conferenza era dedicata a Bruna Brambilla. Di qui i riferimenti autobiografici nel finale.
Faccio convenzionalmente coincidere l’età anziana con il ritiro dal lavoro, anche se quell’età potrebbe essere fatta altrimenti iniziare con il declino delle energie ancora proiettate nella vita sociale, come ci fa capire la canonica distinzione tra terza e quarta età.
L’età anziana, ci insegnano i grandi filosofi, ha senso in quanto compimento. Solo in parte i lavori e i ruoli che abbiamo svolto hanno riguardato il compimento, semmai si sono incamminati verso uno specifico compiersi. Nessuno può sentirsi interamente «esaurito» (parola che preferisco a «realizzato») in quei due ambiti. Anzi, la vita impone il dovuto congedo da lavori e ruoli: siamo sostituiti da altri nel lavoro, usciamo da alcuni dei nostri mondi, abbiamo lasciato andare i nostri figli per la loro strada, abbiamo già perduto alcune dimensioni e alcune percezioni del tempo e dello spazio e altre ne perdiamo. Ma con l’archiviazione del nostro compiersi, non abbiamo perduto tutto. Abbiamo acquistato altre dimensioni e altre percezioni e ci si schiude la scelta di nuovi ruoli e altre attività. E ora disponiamo della più straordinaria ricchezza: la piena disponibilità sul tempo. La difficoltà consiste nel saper intraprendere una strada, senza abbandonarsi, senza lasciare l’esistenza ferma al momento di quel congedo.
Proprio quel congedo ci dice che altro è rimasto fuori, che non tutto si è esaurito, consumato, realizzato. Questo vale per tutti, anche se nella grande maggioranza dei casi umani, almeno nell’epoca che ci è stato dato e ancora ci è dato di vivere, lavoro e ruoli hanno allontanato, anziché assecondato, il compimento; hanno lasciato fuori troppo. Qualcuno è stato più fortunato, ma anche i più fortunati hanno lasciato fuori tanto, e solo i fortunatissimi hanno lasciato fuori qualcosa.
La parola «compimento» ha due sensi che si sovrappongono: l’interrompersi della vita biologica, verso il quale l’età anziana scivola inesorabilmente; e la contemporanea interruzione del percorso solo astrattamente interminabile del nostro compimento come individui. Per il primo aspetto del compimento dovremmo parlare di processo, è qualcosa che avviene al di fuori della volontà, o di cui non possiamo decidere per intero.
Prima o poi l’esistenza organica cesserà. Per il secondo, il compimento di sé, dovremmo parlare invece di percorso, perché lì la nostra volontà, le nostre scelte, le nostre vocazioni contano, pesano, indirizzano. Il processo pone dei limiti al percorso più di quanto ne ponga il percorso, perché siamo un corpo che può pensare, non un pensiero o una volontà che si incorporano. È inutile che indirizzi la mia volizione verso obiettivi che il corpo non è più in grado di sostenere. Conviene invece che sottoponga il corpo ad attività motorie che ne preservino l’efficienza. Ma anche entro i vincoli che ci pone il nostro corpo, almeno fino a che la vita mantiene la sua dignità e anche una pallida prospettiva della sua potenziale pienezza, ci è pur dato di fare qualcosa, e in questo senso il percorso verso il compimento di sé è più del semplice processo. Nessun compimento di sé è assoluto.
Tanti compimenti sono possibili. Alcuni possono coesistere. Non possiamo sceglierli tutti. Si può fare il nonno, vedersi per giocare a briscola chiamata, andare per concerti, viaggiare, leggere, impegnarsi nella vita pubblica, coltivare le stesse passioni di un’intera vita o invece scoprirne di nuove. Diversamente dall’età della formazione e dello status di figlio, dove anche il tempo per sé si indirizzava al futuro, o nell’età del lavoro e dello status potenziale di genitore e di condivisione di prospettive di vita, dove il tempo per sé era volto a mettersi nell’effettiva condizione di fruttificare, nell’età anziana il tempo per noi stessi ci viene offerto in modo duraturo e liberamente finalizzato o finalizzabile.
Tutti i fini sono degni, se sono fini e non derive. Dobbiamo porre tutti gli anziani nella condizione di disporre dei fini anziché abbandonarsi a derive. Non c’è un fine in sé più apprezzabile di un altro. Il fatto che uno sia più elevato è solo un nostro giudizio, una nostra opzione. Non abbiamo il diritto di pretendere che altri condividano i nostri fini. Abbiamo tutti il diritto invece di disporre di una sufficiente potenzialità di noi stessi per attuare i fini che ci siamo scelti.
Mi piace pensare per me stesso a un campo di fini molto vasto, ma che ha un denominatore comune: il dono di una parte del proprio tempo, la quota più preziosa, agli altri. Quel dono ha tanto più valore in quanto è indirizzato a precisi individui, a quei singoli individui: il figlio x, l’amico y, il signor z. Insomma, non andrebbe genericamente indirizzato agli altri (che sono un’astrazione, una categoria concettuale, dunque nozioni all’atto pratico inservibili o quasi), ma a questi altri: x, y, z…
L’utopia è il paese degli Elfi, non quello dei Titani. Solo il microcosmo possiamo abitare; lì soltanto le nostre azioni sono efficaci. È per linee orizzontali, non verticali, che il bene si può costruire.
Così penso da tempo. Ma devo confessare di essere sempre rimasto un po’ intrappolato, impigliato nella rete di queste astrazioni. E mi sento a maggior ragione impigliato ora. Non abiuro il valore della politica e della filosofia; ma ne conosco ancor più i limiti. Mi è riuscito di uscire da questa rete nel lavoro, come sempre dovrebbe essere quando si hanno di fronte persone in carne ed ossa. Ma se scrivo una pisciatina filosofica o mi impegno per il «Sì» piuttosto che il «No» al referendum, lì gli individui sfumano e la trappola degli altri incombe. E se sento Brahms o leggo Il gatto di Simenon (la storia di un’orribile coppia di vecchi) è solo alla mia estensione, o espansione, che penso, ma sono altra cosa dal compimento. Il compimento non è dal mio punto di vista semplicemente e unicamente il dilatarsi verso più cose ascoltate e lette, per parlare di me, ma un atto oblativo.
Non mi sento molto in diritto di additarmi a esempio. A fare un bilancio, mi sono sempre occupato più di categorie, o gruppi, che di singoli. Gli «altri» ai quali mi illudo di consacrarmi presuppongono un’oblatività che in molti consideriamo più nobile, forse anche giustamente, ma che è più difficile da raggiungere, e che comunque, in ultima analisi, aggira l’ostacolo.
I modelli che vivo come più giusti sono per me inarrivabili. Al momento e forse per sempre. Ho molti difetti, e quello che vedo come più grave in questo frangente è la mancanza di umiltà.
Al contrario, una persona che molto ho amato e che sempre ho ammirato con continuo stupore, ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, sino a che un tumore glielo ha consentito, a servire a tavola nella mensa di un convento di frati francescani a Milano. È una scelta che forse avrebbe fatto anche Bruna che qui oggi ricordiamo, ma certo anche Bruna ha fatto scelte consimili. Si sono conosciute ed erano della stessa pasta. Nel segno, anche, di una altissima umiltà, la più nobile e inarrivabile delle virtù, private e pubbliche.
Al loro esempio ho pensato in queste note. E sono queste due donne, tra loro amiche, che vi addito.
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