A Varese si è aperto il Festival dell’Utopia, nella ricorrenza dei 500 anni di Utopia, l’opera letteraria più conosciuta del filosofo inglese Tommaso Moro. Ospiti di Universauser, don Virginio Colmegna della Caritas ambrosiana e il sociologo Peter Kammerer, traduttore di Pierpaolo Pasolini che profetizzò, in una poesia del 1962, lo sbarco di tanti stranieri nel nostro continente.
In un Salone Estense affollato Kammerer ha esaltato la necessità di imparare a volare alto, di sognare altri mondi, di diventare visionari. Oggi più che mai, nell’epoca delle passioni tristi (è il titolo del libro dello psichiatra argentino Miguel Benasayag), avremmo bisogno di una massiccia dose di utopia da infondere ai nostri asfittici orizzonti e da trasmettere a figli e studenti. Perché senza orizzonti che si levino al di sopra di noi, la società, persa la promessa di un futuro migliore del presente, si ritrova senza una meta. Purtroppo, e non solo da oggi, il mito del progresso ha ceduto il passo a una crisi di valori causa di un malessere profondo e diffuso, che nei giovani diventa rabbia impotente di fronte all’indifferenza e agli egoismi, individuali e sociali.
Ma, come cantava il nero americano B. B. King, morto nel 2015 a 95 anni, “There must be a better world somewhere”. Da qualche parte deve esserci un mondo migliore, in uno spazio o in un tempo lontani dal nostro quotidiano.
Abbiamo bisogno di poeti, ha detto don Colmegna, di persone che credono (l’indicativo è obbligatorio) in un domani più felice, in una società più giusta, in un futuro senza guerre. Perché solo i poeti sono capaci di sognare, non si arrendono alla durezza del presente, distillano la parola giusta per spingerci a vedere oltre. Trasformano con l’utopia il presente, perché questa realtà non può essere tutto ciò che esiste.
Ecco l’utopia divenire la molla per guardare avanti, oltre la nostra vita individuale: uno sguardo sul mondo che verrà. Sono stati citati i progetti delle famiglie dei disabili gravi, che si muovono per costruire un “dopo di noi” a cui affidare i propri figli bisognosi di assistenza.
Dobbiamo pensare a quando noi non ci saremo, e altri invece ci saranno, e vorranno ricevere un lascito che non sia la somma di debolezze, di errori, di disastri ambientali e umanitari. Ma per costruire il futuro si deve essere attrezzati a lavorare nel presente per rendere più abitabile questo mondo, oggi stesso.
Margaret Thatcher aveva coniato l’acronimo – bruttissimo – T.I.N.A.: There Is No Alternative. Nessuna alternativa era possibile per la Primo Ministro britannico: al neoliberismo, al libero mercato e alla globalizzazione, alla chiusura delle fabbriche e delle miniere, all’impoverimento del paese, alla marginalizzazione delle classi popolari. E in effetti, per molti anni, non ci fu alcuna alternativa. Ma dopo di lei, altri governi, guidati da politici dagli orizzonti bassi, non seppero realizzare né grandi riforme né miglioramenti sociali.
Don Colmegna ci ha ricordato che l’uomo ha i piedi sulla terra, poggianti sul concreto, e la testa che sta immersa nel cielo, perché questo è il destino dell’umanità: essere “qui ora” e allo stesso tempo prefigurarsi un “dopo”. Il Cardinal Martini, spronandolo ad occuparsi dei poveri e dei diseredati lo invitò a “mettere i piedi dentro la povertà”. Progetto puntualmente messo in atto senza remore nella vita degli ultimi della società. E oggi, sentendolo parlare, vediamo chiaramente come abbia saputo tenere la testa nel cielo e uno sguardo visionario sul mondo.
Il festival continua per i prossimi tre mesi, dando voce alle diverse articolazioni dell’utopia: in educazione, in economia, in architettura, nei diversi settori del sapere umano.
Questi appuntamenti sono l’omaggio della città di Varese al sogno di un uomo, Tommaso Moro, che 500 anni fa fu giustiziato per essersi opposto allo spirito del tempo e ai potenti dell’epoca.
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