Una recente visita al piccolo cimitero del mio paese natale, in Umbria, dove sono sepolti i miei genitori, e i miei nonni e i bisnonni materni (il bisnonno, ho visto, nacque quando ancora esisteva lo stato pontificio), mi ha indotto ad alcune brevi riflessioni. Anche qui, nel paesino, tra qualche mese, arriverà – se non è già arrivato – il vento della polemica della riforma costituzionale, dei sì e dei no. I circa duecentocinquanta anziani che lo abitano – che d’estate di norma quadruplicano con i rientri di coloro che tornano dal Norditalia, o da Roma, o anche dall’estero, dalla Germania, dalla Francia, dal Belgio, dove emigrarono in cerca di miglior fortuna – si scanneranno (metaforicamente) per qualche settimana, come già accadde (meno metaforicamente) qualche secolo fa, o anche qualche decennio fa, con le guerre comunali o con le lotte partigiane. Poi tutto tornerà come prima, e l’argomento principale di discussione sarà ancora quello della caccia – oggi al cinghiale – o della cronica mancanza di acqua…
Il paesino, a vederlo, ricorda molto l’attacco di una vecchia (di quasi mezzo secolo fa…) canzone dei Ricchi&Poveri: “Stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato…”. Si chiama Pieve e si estende, infatti, lungo una cresta collinosa che vede a nord la Piana eugubina, a mezzogiorno Perugia e a oriente i monti che circondano Assisi. Vi ho trascorso, per tanto tempo, le vacanze estive, e quand’ero molto piccolo anche periodi dell’anno più lunghi.
Qualche tempo fa, osservando il disegno della vita in un borgo umbro del Settecento, notai che la descrizione dell’artista non si discostava molto dalla condizione in cui vi vissi io negli anni Cinquanta del Novecento. Anche negli abiti delle persone, delle donne per esempio, che portavano gonne lunghe fino alle caviglie. Nel paese non c’erano auto, solo una che un mio zio usava come tassì per accompagnare le persone in città per lo più in occasione di urgenti visite mediche. C’erano un paio di motociclette e nemmeno una bici, a causa delle ripidissime discese e… risalite. Solo due apparecchi tv: uno nella casa del parroco e monsignore; l’altro nel circolo socialcomunista. Nella casa del parroco, ricordo, seduto su una panchetta in fondo, vidi i servizi sul naufragio del nostro transatlantico Andrea Doria, nel luglio del 1956. L’elettricità non arrivava in ogni casa. Le strade non erano asfaltate (a dire il vero lo sono poco anche adesso…) e quando arrivava, il pullman – lì lo chiamano “il postale” – faceva una nube di polvere che si vedeva di lontano.
Mia nonna – che in quegli anni era più giovane di quanto lo sia io adesso, e anche mio nonno… – andava a prendere l’acqua alla fonte, in piazza, che distava centocinquanta metri dalla casa, con una brocca di rame che teneva sulla testa, appoggiata a un rotolino di panno. Il pane lo si cuoceva in un forno comune, tre giorni la settimana. Il forno esiste ancora oggi… In ogni casa, anche d’estate, il camino era acceso, e la sera sotto la brace vi si cuoceva la crescia, che è una specie di piada romagnola, ma più alta, lievitata. Servizi “igienici” nella stalla. La pipì della notte, e i resti del cibo, si gettavano dalla finestra, nell’aia, in pasto alle galline e ad altri animali domestici che vi razzolavano e scorrazzavano senza darsi grande fastidio l’un l’altro.
Certo, sessant’anni sono molti e la vita è cambiata. È nel 1956, otto anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, che prende a funzionare la Corte costituzionale. Le Regioni, addirittura, si insediano quattordici anni più tardi (rispetto al ’56). La legge attuativa dell’articolo 6 (la tutela della minoranze linguistiche) cinquantuno anni dopo il ’48, quasi cinquantadue. E subito dissero che non andava più bene…
La vita è dunque cambiata in meglio? In meglio, sì, e credo che pochi abbiano nostalgie per il passato. Ma credo anche che, venendo qui a dare un’occhiata, e rovistando nel cassetto dei ricordi, si potrebbero meglio capire tanti problemi ancora in essere. E più che giustificare un dibattito su un’utile riforma costituzionale – sul sì e sul no – si giustificherebbe un assenteismo sempre di più interminabile, un’ineluttabilità della vita – qualsiasi cosa succeda – immutabile dinanzi ai governi e ai governanti che arrivano e passano. Forse è solo una nostra caratteristica – un “carattere italiano” –, forse accade così anche altrove. Ma non ne sono poi tanto sicuro.
You must be logged in to post a comment Login