Olimpiadi e Pokémon Go sono stati i “giochi” di quest’estate. Giochi? Direi, piuttosto, l’espressione di due diversi e contrapposti modi di affrontare la vita.
Le Olimpiadi sono – o dovrebbero essere – la celebrazione degli aspetti migliori dell’essere umano: forza che rifugge dalla violenza, eleganza, armonia. E poi coraggio, disciplina, costanza, determinazione, desiderio di superare i propri limiti e capacità di riconoscerli ed accettarli. E poi lavoro di squadra, lealtà, generosità. Sono il punto di arrivo di un impegno duro e continuo, spesso il punto di arrivo di un’intera vita sportiva. Certo, c’è anche la componente ludica, ma mi pare che chiamarli giochi sia riduttivo.
Ho visto un’atleta della ginnastica ritmica, poco più che una bambina, volteggiare come una farfalla sul tappeto e poi dichiarare con naturalezza di allenarsi 8/9 ore al giorno. Ho scoperto che Daniele Lupo ha vinto la medaglia d’argento un anno dopo avere sconfitto un cancro. Incredula, ho ammirato gli sforzi dei nuotatori nei diecimila metri, io che in acqua entro sì e no per dieci centimetri. Mi sono commossa di fronte al gesto di due atlete che, dopo una caduta, si sono aiutate a vicenda nella gara dei 5000 metri di corsa, senza preoccuparsi del risultato. E che dire delle paralimpiadi? Corridori ciechi, nuotatori senza arti. E il sorriso radioso di Bebe Vio, fiorettista senza gambe e senza braccia, che mostra felice la medaglia d’oro appena vinta. Non riesco nemmeno ad immaginare la fatica che sta dietro a quei sorrisi; per me quegli atleti sono tutti mostri sacri. Le cerimonie di premiazione, di qualunque Paese siano i premiati, mi appaiono sempre come il trionfo della giustizia, il giusto riconoscimento dovuto ad anni di sforzi silenziosi e a valori umani fondamentali.
Poi è arrivata l’incrinatura. Non solo i casi di doping, ma soprattutto un gesto, anzi, il rifiuto di un gesto: il judoka egiziano che non stringe la mano all’avversario israeliano. Per associazione di idee mi sono trovata ad Auschwitz.
Tuttavia, anziché meditare sulla reale malvagità umana, sono stata costretta a fare i conti con un manipolo di mostriciattoli virtuali. Sì, perché pare che Pokémon Go, la app della Nintendo che quest’estate ha spopolato, abbia piazzato le sue creature in luoghi come il campo di concentramento di Auschwitz, il Museo dell’Olocausto di Washington, il cimitero di Arlington, il monumento alla Shoah di Berlino. Il gioco consiste nel cercare questi esseri nella realtà circostante attraverso lo schermo del proprio smartphone, catturarli e poi giocarci con altri utenti.
Ora, devo riconoscere che sfugge alla mia capacità di comprensione il meccanismo che conduce le persone a violare la sacralità di un luogo come Auschwitz per dedicarsi, nella più assoluta indifferenza, ad un gioco. Per inseguire mostriciattoli virtuali, ignorando i mostri reali che hanno creato quegli orrori. E pare non si tratti solo di ragazzini, ma anche di adulti quarantenni. Mi chiedo, a questo punto (con eccessiva severità?), se ci sia differenza tra i mostri che hanno ideato i campi di concentramento e i giocatori “distratti”. E mi chiedo se si possa chiamare gioco questa attività: il gioco dovrebbe dare leggerezza alla vita, ma una tale mancanza di sensibilità e di consapevolezza rende ancora più pesante il ricordo di ciò che è stato commesso in quel luogo, come se tutto ciò che è accaduto lì dentro fosse accaduto inutilmente.
Come al solito, ho più domande che risposte. Però ho ben chiara l’enorme distanza che separa i due differenti modi di interpretare l’esistenza umana. E avendo dedicato una vita all’insegnamento, ho anche una speranza: di aver contribuito a trasmettere ai miei studenti, almeno in minima parte, i valori che hanno ispirato i “giochi” olimpici.
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