Tutti sogniamo di essere persone “rette”, equilibrate, con idee chiare e distinte, in grado di stare in piedi da sole… senza eccedere da nessun lato… capaci di fare la “verticale” tra bisogni e desideri, tra gli echi delle nostre voci interiori e i richiami della variopinta umanità attorno a noi.
Ma poi è proprio così che deve essere? Quanti riescono a stare in simile equilibrio? Da questo punto di vista, guardando a Gesù, verrebbe da dire che lui, invece, si è “s-quilibrato”, si è messo su un piano “inclinato”, ha preferito “abbassarsi” anziché tenere le distanze rispetto all’umanità peccatrice. Tant’è che ha scelto di farsi piccolo fino a diventare uno di noi, ha condiviso la nostra condizione umana, facendosi amico dei malati, dei carcerati, dei peccatori, portando su di sé le colpe di tutti.
Mentre annunciava il Vangelo per le strade della Palestina, ha mostrato al mondo che chinarsi è paradossalmente il modo più corretto per vedere lontano, così come scrutare la terra è il miglior punto di vista sul cielo.
E uno dei suoi ultimi gesti, quasi un testamento – la lavanda dei piedi – resta come una icona suggestiva del nostro Dio, che dimora nell’alto, ma si china verso il basso (salmo 113); ha la dignità di capo, ma predilige la funzione del servo; è signore dell’universo ma non possiede neanche una casa sua.
Ecco perché anche noi, ad imitazione di lui, ci pieghiamo devotamente, abbassandoci in adorazione davanti al Santissimo, celato nel sacramento dell’altare, e a quello, non meno celato, nel mistero di ogni uomo e donna, curvandoci di fronte alle loro condizioni di miseria, materiale e/o spirituale.
Non c’è nessuna santità cristiana nell’orgogliosa autonomia, nella saccente indipendenza o nell’egoistica autorealizzazione.
Occorre perdersi per ritrovarsi e per ritrovare Dio e i fratelli. Solo chi perde l’equilibrio, poi lo ristabilisce. Ondeggiare è il modo migliore per imparare a danzare. Scrivere fuori dalle righe è l’accorgimento per catturare parole nuove. Errare (nel senso di sbagliare) è l’occasione per imparare a poter errare (nel senso di vagare, ricercare, impratichirsi).
Forse l’evoluzione della specie deve prevedere, dopo la posizione dell’homo erectus, quella dell’homo obliquus, che si china sui suoi simili, come facevano Francesco d’Assisi e i suoi compagni, che pregavano proni verso terra con il corpo e con lo spirito. È lo spirito dell’umile, che sente la terra (humus) come suo trono.
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