L’assalto alla chiesa di Saint-Étienne nelle vicinanze di Rouen in Francia, con il martirio sull’altare di padre Jacques Hamel, sacerdote esemplare per santità, pieno di zelo pastorale e animato dalla carità del dialogo nel rapporto colla comunità musulmana, tanto da essere definito dall’imam un fratello (gli aveva tra l’altro ceduto il terreno per costruirvi la moschea), ha suscitato profondo sconcerto e commozione.
Ucciderlo nel nome di un Dio di morte ha voluto, come in tanti altri casi e situazioni, dimostrare, come ha sottolineato papa Francesco, che non si tratta in verità di una guerra di religione scatenata nei continenti in nome di una fede autentica, quanto di una guerra di denaro e di potere, di egoismi e di chiusure. Dai ghetti mentali dei terroristi sparsi nel nostro continente all’infuriare delle devastazioni disumane e delle stragi, degli eccidi operati in Siria, Yemen, Libia ed in molti territori dell’Africa e dell’Asia si crede nell’equivalenza religione islamica (con le conseguenti guerre di religione)-estremismo coranico, tutta da dimostrare.
Lo scorso 31 luglio cristiani e musulmani illuminati in tante chiese d’Italia e di Francia hanno voluto accogliere l’invito lanciato dal Consiglio francese del culto musulmano e dalla Coreis (Comunità religiosa islamica italiana) e dal nostro clero per una preghiera di testimonianza in comune a favore della pace e contro l’odio scatenato su più fronti.
L’assassinio in un luogo di culto d’un prete stimato da tutti ha mosso anche le coscienze dei musulmani. Pure il grande imam di al-Azhar, la più alta autorità del mondo islamico sunnita, ha levato alta dal Cairo la sua voce di condanna. Pas en mon nom è echeggiato: nessuna equivalenza tra Islam e terrorismo.
Siamo tuttora lontani dallo spirito e dalla coscienza critica della Dichiarazione di Marrachesh (27 gennaio 2015), in cui 250 illustri studiosi islamici si sono proposti di “eliminare ogni argomento che istighi all’aggressione e all’estremismo, portando alla guerra e al caos”, ritenendo inconcepibile usare la religione per colpire i diritti delle minoranze nei Paesi musulmani.
Il richiamo alla Carta di Medina, che garantiva indistintamente la libertà religiosa 1400 anni fa, ne è la prova. Anche nell’ambito della teologia islamica contemporanea il pensiero di uno studioso minoritario come Abu Zayd (1943-2010), accusato dai fondamentalisti d’apostasia, ci riconduce a una lettura storicistica del Corano. I diversi versetti che accennano alla pace e alla guerra sono stati rivelati in risposta a precise circostanze storiche.
Per esempio la condanna degli ebrei ritenuti come gli avversari più accaniti deve essere contestualizzata. Momento chiave l’anno 627 quando i meccani (dopo la vittoria sui musulmani del 625 presso il monte Uhud, che vede ferito Maometto) tornano ad avanzare e ad assediare Medina, ma devono ritirarsi dopo alcune settimane. Il Profeta decreta allora la cacciata di tutte le famiglie ebree, sospette di simpatizzare coi nemici: vengono uccisi 600 uomini, venduti mogli e figli come schiavi.
In precedenza Maometto, considerandosi colui che ha rinnovato la religione d’Abramo, alterata dai popoli del Libro, li ha definiti empi, infedeli, miscredenti. Ma la nuova rivelazione, pur essendo la sintesi definitiva delle precedenti, il loro Sigillo, Cristianesimo incluso, non pretende di abolirle del tutto.
Quanto annunciato e prescritto nel Corano è conseguenza naturale del patto biblico, sancito in tempi e con modalità diverse. Grazie al meccanismo di protezione della dhimma le comunità della gente del Libro sotto governo islamico possono pertanto continuare a professare la propria fede e a governarsi secondo le proprie leggi (principio di tolleranza), purché si assoggettino a una tassa speciale e si adeguino all’ordine politico islamico, rimanendo escluse dalle cariche statali.
Sta scritto: “Non c’è costrizione nella fede” (Sura 2,256). La storia dell’Islam non ricorda neppure un solo caso di conversione forzata. Sura 5,69: “Quanto a coloro che credono, e gli ebrei e i sabei e i cristiani – quelli che credono in Dio e nell’ultimo giorno e fanno il bene – non hanno nulla da temere, non patiranno tristezza alcuna”. Sura 4,125: “Chi mai può scegliere una religione migliore di questa: sottomettersi a Dio facendo del bene e seguire la comunità d’Abramo in fede pia? Dio si è preso Abramo come amico”. Sura 29,46: “Discutete con la gente del Libro solo nel modo migliore – fuorché con i colpevoli – e dite : crediamo in quello che è stato rivelato a noi ed è stato rivelato a voi, il nostro Dio e il vostro Dio sono un solo Dio, noi tutti siamo sottomessi a Lui”. Con la sottolineatura di cui alla Sura 5,82: “Troverai che i più ostili ai credenti sono gli ebrei e gli idolatri, mentre troverai che gli amici più prossimi ai credenti sono quelli che dicono: siamo cristiani” (letteralmente: siamo nazareni) a causa del sacerdozio e del monachesimo esempio di umiltà, mentre si rimprovera ai dottori degli ebrei un superbo disprezzo per le opinioni altrui. Segni anche della simpatia provata dai musulmani verso la Chiesa etiopica.
Soprattutto campeggia la Sura 2,208: “Voi che credete, entrate tutti nella pace e non seguite le orme di Satana, che è un vostro chiaro nemico”.
Per quanto ecumenicamente disposto al dialogo, ma nella distinzione dei vari enunciati, l’Islam ben difficilmente può conciliarsi alla reintegrazione di principi contraddetti dalle sue convinzioni fondamentali (unitarismo nella concezione di Dio di contro al trinitarismo dei cattolici, negazione del peccato originale rispetto alla necessità dei cattolici di avere in Cristo l’Uomo-Dio che vicariamente riscatta l’uomo dal peccato grazie alla morte in croce, è respinta ogni rappresentazione antropomorfa di Dio – Cristo è solo oggetto della storia dei Profeti, sono rifiutati il battesimo e l’Eucaristia, i sacerdoti anche nella frazione sciita non espletano alcun genere di funzione sacra, non si rinviene alcun culto o possibilità di intercessione da parte di Maria – solo onorata – e dei santi sulla via della salvezza). L’intercessione appartiene interamente a Dio.
La professione di fede per l’Islam si compone di sei articoli: 1) fede nell’unico Dio, cui è dovuta incondizionata sottomissione, ma anche riconosciuta pace (salām) e salvezza; 2) fede negli angeli; 3) fede nella Rivelazione e nelle Sacre Scritture; 4) fede negli inviati di Dio; 5) fede nella resurrezione dopo la morte e nel Giudizio universale; 6) fede nella predestinazione divina (principio specificamente islamico), cui si aggiunge per gli sciiti fede nell’imam. Sura 21,25: “Non c’è altro Dio all’infuori di me, perciò adorate me”. Se per certi versi la fede produce sul cammino del mondo l’intervento determinante di Dio, la pretesa che i fedeli lottino e si sforzino per realizzare la volontà di Dio a prescindere dai successi ottenuti e dalle realizzazioni introduce però il criterio del libero arbitrio, della responsabilità dell’uomo.
Secondo i Sunniti l’Islam poggia su cinque pilastri (arkān): la shahāda, professione di fede; la șalāt, preghiera rituale; la zakat, la carità od offerta con fini umanitari; il sawān, il digiuno del mese di ramadān; il pellegrinaggio alla Mecca, lo hağğ. Con l’aggiunta presso i khārijti e gli ismailiti della gĭhād, la guerra santa (letteralmente: sforzo, impegno). Intesa in un primo tempo come lotta contro gli aggressori e gli apostati, contro una società ingiusta e caratterizzata dall’ignoranza, venne condotta in seguito per ampliare ed arricchire il dominio territoriale degli Arabi.
Il concetto di ummāh (comunità), prima intesa in senso mondiale come ecumene ebraico-cristiano-musulmana venne solo più tardi ristretto alla sua dimensione infra-islamica.
In base al diritto islamico il mondo è suddiviso in dār al-Islām (territorio islamico) e dār al- harb (territorio della guerra) potenziale teatro di guerra, perché l’obbligo della gĭhād dovrebbe continuare a sussistere fino al momento in cui il mondo intero sia sottomesso alla legge musulmana e quindi agli ordinamenti politico religiosi di Allah. Una guerra di reazione e di difesa contro gli aggressori del nuovo e unico messaggio muta natura e verso.
Ma il Corano insegna il perdono e la magnanimità verso il nemico vinto; comportamento e spirito di vendetta non fanno parte dell’Islam, almeno nei principi teorici, un tempo anche nella prassi. Nell’Islam ha poi un notevole rilievo l’eguaglianza degli uomini, a prescindere dalla razza e dalla nazionalità. Il principio supremo del comportamento sociale suona così secondo il Corano: “I credenti sono soltanto fratelli”. La fede in Dio è la base e il presupposto di tale fratellanza; i non credenti però non debbono rimanere esclusi dalla solidarietà.
Se la giustizia assume nell’Islam una posizione apparentemente più importante del comandamento dell’amore, in verità l’amore è anche per l’Islam una forma superiore dei rapporti sociali. Così Maometto come abbozzo: “È giusto quell’uomo che riesce a dare agli altri tanto amore quanto ne desidera da loro perse stesso”.
Nel mondo islamico la coscienza politica si è sviluppata storicamente come parte dell’identità religioso-culturale dei musulmani, anche se vari elementi sono una costruzione dei successori di Muhammad. Del califfato non si fa cenno ad esempio né nel Corano né nella tradizione (sunna). Nella mentalità islamica non c’è distinzione tra comunità religiosa e organizzazione politica, per cui la sharī’a assurge a fonte del diritto sia religioso che statale, entrambi da ricondurre ad Allah, supremo legislatore: essa regola i rapporti dei fedeli con Allah, con il prossimo e la comunità, facendo rientrare tutte le azioni umane in cinque categorie: azioni necessarie, raccomandate, indifferenti, riprovevoli, proibite.
Qui il pericolo di una codificazione dettata in alcuni punti da preoccupazioni eminentemente o esclusivamente politiche nel corso della storia. Se per un verso lo Stato dell’Islam lascia scorgere una struttura teocratica, per l’altro è autorizzato ad esigere dai sudditi l’obbedienza alla legge di Dio con autorità e pieni poteri. Il capo del governo deve in ogni caso sottostare a determinate condizioni, conoscendo quanto prescritto dal Corano, consultando altri membri della comunità.
Il codice morale dell’Islam contiene comandamenti e divieti paragonabili a quelli del Decalogo. Questo è il piano privilegiato di una possibile intesa tra le fedi nella devozione a un Padre comune, che nel versetto iniziale d’ogni Sura è definito il clemente, il compassionevole, Dio della misericordia e del perdono.
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