Nel linguaggio comune la “dialettica” (dal verbo greco διαλέγεσθαι) coincide con la bravura e la fluidità nell’eloquio, equivale a “eloquenza” (termine, si noti per inciso, che nulla ha a che fare con la retorica); una tecnica che può accomunare l’avvocato e il banditore al Mercante in fiera,il tribuno politico e il venditore di croste o pentolame in tv. Nel linguaggio filosofico, o almeno in molte correnti di pensiero, la dialettica riguarda invece l’argomentazione vera: è il processo del pensiero che si costruisce entro una relazione dialogica tra due o più interlocutori, ed è insieme il criterio normativo, o se si preferisce il motore che spinge e guida tale processo dall’interno, verso un fine condiviso: l’accesso al vero.
La preposizione διά ha in greco un triplice valore: modale, attuale e mediale; indica lo strumento, l’attraversamento e la reciprocità. A propria volta, il verbo λέγω è un ginepraio di significati. Disboscando con brutalità indica: la parola; il discorso; il legame inerente all’interlocuzione, tanto nei passaggi quanto tra i protagonisti del discorso; il pensiero non come facoltà pura ma come suo esercizio attivo; il metodo che presiede l’argomentazione vera, non sempre formulato separatamente dagli oggetti del pensiero (e in quel caso si ha la logica). Oggi, se ancora i neologismi venissero tratti dalle lingue antiche, potremmo aggiungere: connettere.
Vi è un ulteriore ramo di significati, che mi limito a menzionare. In molti pensatori, a partire da Eraclìto, il sostantivo λόγος ha assunto anche una valenza ontologica, che muove dal convincimento dell’unità inscindibile tra essere, pensiero e linguaggio. Dialettica equivale in quel caso al pensiero e al linguaggio che ci fanno accedere alla pensabilità e all’esprimibilità dell’Essere.
Da Platone a Hegel, i suoi due massimi teorici, la dialettica comprende entro di sé la contraddizione e la negazione, e non solo la positività dell’affermazione, e considera l’unità un conseguimento, un risultato piuttosto che una premessa. Per questi pensatori e le loro scuole o derivazioni, la dialettica non è solo pensiero che si fa discorso, ma ha appunto statuto ontologico, è la forma del manifestarsi e venire a sé e a noi dell’essere. Sul piano ontologico la dialettica si manifesta anche come conflitto e come sua ricomposizione in un piano superiore che è altro rispetto alla posizione originaria, e anche in questo ambito essa produce un esito provvisorio – il termine più opportuno è “inveramento” – che a sua volta schiude ad ulteriori sviluppi.
La dialettica è dunque, per quel che ci interessa, come già il dialogo, un cammino che ha una peculiarità: non è cosa per viandanti, per passeggiatori solitari, per pellegrini che – come si usa dire per i ciclisti – preferiscono farsi staccare dai più veloci per “andare avanti con il proprio passo”. È la comune scoperta, esplorazione, mappatura, addirittura creazione di un territorio. La dialettica è dunque un movimento, più esattamente un transito che lascia incerte tanto l’origine quanto la conclusione. Seguendo la lezione magistrale di Hegel, ogni impossessamento di un brandello di realtà o di pensiero è anche uno spossessamento delle precedenti certezze: non un dileguare assoluto – in se stesso il nulla non manifesta alcuna dialettica – ma un passare oltre, un superamento, un trascendimento che insieme abbandona e conquista.
La principale caratteristica della dialettica consiste nella fluidificazione, nel rendere mobile e sciolto ciò che di primo acchito si manifestava come fisso e rigido. La dialettica somiglia a una sorta di corrente che, ora sotterraneamente e ora emersa e visibile, permette di traversare, e altresì al vento in superficie, un mondo terraqueo dove nulla è mai fermo, tutto è malfermo ma vi è sempre un approdo, un porto temporaneo da cui muovere ancora.
Sulla carta, ma solo sulla carta – altra è sempre la realtà in cui sono immersi i parlanti, parziale e provvisoria, un’ottica tra tante altre che si configurano nello spazio e nel tempo storici –, la miglior forma di dialogo è quella dialettica. Il dialogo dialettico è un fine legittimo, anche e soprattutto perché non è mai conseguibile e solo infinitamente avvicinabile (qui l’incolmabile differenza tra pensiero comune e pensiero filosofico: l’imperdonabile confusione del fine con l’obiettivo determinato: “Quest’anno mi compro la macchina nuova”). Non vi è compimento, così come non si inizia mai da zero. Il pensiero, come la produzione artistica, non è mai un iniziare da capo, si fonda sempre su un già pensato e su un già prodotto: la creazione ex nihilo è una rappresentazione religiosa, forse adattabile a Dio, ma estranea all’attività umana.
Non è una prospettiva facile da acquisire e meno ancora da mettere in pratica. Se si parla di dialettica in astratto, molti possono sentirsi sgomenti davanti all’idea della indefinibilità del principio, o della sua irraggiungibilità conoscitiva; ma se ci riferiamo alle condizioni pragmatiche della nostra comunicazione reciproca, o anche dei nostri – presunti – soliloqui, si nota facilmente che possiamo risalire indietro a un rimando, a un gradino precedente. Lo stesso potenziale sgomento vale per la rinuncia agli obiettivi in sé, per subordinarli a dei fini. Un mondo dominato dal presente, o dal futuro immediato, che non sa arrivare a dopodomani, non sa concepire dei fini, e così è irrimediabilmente smarrito. È questa la catastrofe che ci sta inghiottendo: nella produzione dei beni, nella distribuzione delle ricchezze, nello sfruttamento dell’ambiente, nelle direzioni che diamo alla nostra vita e nelle bussole che dovrebbero guidarci e invece ci perdono prima ancora di farci perdere.
Quali possono essere le caratteristiche di un “dialogo dialettico” (un calembour che sembra una tautologia ma non lo è)? Molte sono state dette. Va evidenziata invece una rilevante variazione sul tema. La dialettica, più che l’assenso finale, implica l’inclusività, addirittura – se mi è permesso – l’accoglienza. Non esiste dialogo se non si considera la posizione dell’altro, che è spesso opposizione, come un proprio punto di partenza diversamente dislocato, all’esterno del mio ordine discorsivo e del mio campo visuale.
Sia chiaro. L’inclusività di cui si parla non significa affatto, come credono gli allocchi di un nuovo senso comune – il politicamente corretto –, che siano compossibili due punti di vista senza comparazione tra loro (senza comparazione l’umanità ignorerebbe l’evoluzione, non potrebbe migliorarsi). Tali punti di vista, in simili (corrette!) posture intellettuali, sono legittimi solo in presenza di un dubbio non ancora risolto: se fosse irrisolvibile, ambedue o quanti sono vanno abbandonati e riposti in soffitta, come ricordi che occorre serbare senza però scomodarli o renderli d’ingombro. Altrimenti l’orizzonte prospettico della cultura A vale quello della cultura B, l’una e l’altra altrettanto valide e legittime. E meno ancora si tratta di accettare, ignorandole, posizioni diverse: la versione pilatesca di un grande concetto, quello di tolleranza, senza il quale non potremmo convivere.
Diversamente dalla dialettica classica, fondata sul concetto di inveramento, di sintesi tra positivo e negativo (il vegetale albero si definisce anche dal suo non-essere un filo d’erba), affermazione e negazione si pongono in rapporto come reciproca restituzione. Incontriamo qui la grandiosa teoria leibniziana, che ha il pregio di aver fatto valere per prima la compenetrazione tra soggetto – l’aggregato di monadi chiamato individuo – e oggetto – il mondo esterno. Allo stadio, rispetto ad ogni altro, ad ogni uno, ciascuno assiste al tempo stesso a una partita diversa e alla stessa partita. Metaforicamente, per dialogare, ad ogni scambio di battute dovremmo cambiare di sedia, fino ad averle occupate tutte, una alla volta. Ciascuna posizione, più che un banale “stare accanto” o un “prendere” – meno che mai del vero, concetto assai poco utilizzabile in filosofia – è appunto una restituzione: un’offerta che arricchisce il mio punto di vista, e con ciò stesso, sia pur impercettibilmente, lo muta. Interagisce e retroagisce.
Di più. La differenza non viene meno, e non si limita a convivere: diventa proattiva, opera in noi spostandoci in avanti. Di fatto non siamo pronti ancora per uscire da una visione precettistica, e quindi aridamente rituale, della dialettica: “tu devi” far questo e far quello… La dialettica non si prescrive, non è una ricetta, peggio che mai di per se stessa morale; si scopre in sé, quando succede; e se succede, ci è più facile essere morali, in un qualche senso che possa essere condiviso. Indipendentemente dalle banalità grossolane del concetto di “culture”.
Nata con Platone come apice della razionalità, la dialettica può sopravvivere oggi, dopo una lunga mutazione genetica, come un sentire, o meglio come incorporazione di un habitus mentale che ci dispone ad un dialogo fattivo con gli altri.
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