Del burkini se n’è parlato anche troppo, è stato l’argomento dominante di metà estate, e le apparizioni dell’indumento sul bagnasciuga tra i bagnanti della riviera ligure o della Costa Azzurra hanno suscitato non meno scalpore di quello destato dai primi bikini delle ragazze degli anni Sessanta, quando i padri, e i preti dai pulpiti, minacciavano tuoni e fulmini. Capita, nel trascorrere della storia, che, per motivi inversi e diversi, realtà opposte finiscano per toccarsi e per suscitare reazioni uguali e contrarie.
Sappiamo bene che, sotto l’impressione suscitata dalla strage di Nizza, le reazioni a caldo sono state, anche da parte dei più aperti opinionisti, di solidarietà con chi temeva che la troppa tolleranza potesse significare sottomissione, se non addirittura un invito a correre rischi di altri possibili attentati, mascherati dagli abiti. Qualche direttore di giornale ci ha poi ripensato: le immagini delle giovani musulmane obbligate a scoprirsi davanti ai mitra della gendarmerie dovevano farci fare ammenda. S’è trattato insomma di una violenza inaccettabile per quelle donne scese in spiaggia, seppure in fogge a noi inconsuete. E si è ignorato, come qualche voce più avveduta ha sottolineato, che le portatrici del burkini, sotto il peso di quegli indumenti ingombranti, stavano tentando di fare un passo in avanti verso una vita più libera e tollerante, sedendosi senza problemi accanto a chi, in spiaggia, invece di vestirsi si sveste per prendere meglio il sole.
Ora che l’estate è alla fine, ecco che le pagine patinate degli stessi direttori, quelli incerti se votare sì o no al burkini, offrono ben altre immagini dalla passerella rosso scarlatta del festival del cinema di Venezia. Anche qui altri veli, ma sono pepli trasparenti, strascichi minimalisti da srotolare sul carpet e destinati, più che a coprire, a esaltare la nudità di dive, o divette, e il niente assoluto della biancheria in un addio definitivo da tardo impero al pudore e al buon gusto.
Mi chiedo quante donne non si sentano perplesse, prese in mezzo tra un estremo e l’altro, tra due costumi così diversi, ma caratterizzati da un unico comun denominatore: quasi che il pudore di ogni donna finisca per somigliare a un elastico, teso tra due estremi opposti, variabile dipendente dalle imposizioni religiose e familiari, così come dalle tendenze voyeuristiche di un certo mondo che ne esalta – e non di rado ne sfrutta – il corpo a fini utilitaristici. E chiediamoci anche se tanta “libertà” femminile del nostro progredito Occidente non sia altra esca utile a suscitare reazioni opposte in menti già esaltate.
Anche sul rosso e imbellettato carpet di Venezia, al quale tanti occhi guardano, dove vecchie autorità e soloni del mondo del cinema raccontano il mondo dal grande schermo, bisognerebbe finalmente imparare a muoversi in altro modo. Facendo qualche passo indietro, per favore. In direzione del buon gusto e del rispetto della donna. Che non sono dettagli da copertina, ma sostanza della vita.
Ma è dovere prima di tutto delle donne, le donne del mondo, nel loro lavoro, nella quotidianità domestica, nella vita sociale, dare l’esempio -certo laddove la libertà di decidere lo concede senza rischi estremi- della dignità della persona.
Come facevano negli anni Sessanta, costruendo giorno per giorno la loro rivoluzione silenziosa, la maggior parte delle ragazze, quelle che scendevano in spiaggia coi primi bikini. Non per scoprirsi o coprirsi, semplicemente per indossare un indumento che permettesse loro di mettersi al sole, respirando aria pulita accanto ai loro ragazzi, da sempre in monokini.
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