In questa affranta mattinata di settembre – implacabile nel manifestarsi in un cielo esterrefatto – che prima o poi una benefica e, così spero, non travolgente pioggia renderà più terso e nitido, cerco di indagare con la quiete nel cuore sulle paure e sulle speranze che mi porto addosso.
Se penso al terrorismo, alla tanto sbandierata invasione dell’Islam, al fenomeno migratorio, alla crisi economica, all’Europa che sembra sbriciolarsi sotto i colpi degli egoismi nazionali, all’eccessiva e continua zuffa tra i partiti in Italia, al diffondersi di culture razziste, ai disastri nazionali, mi sento, non lo nascondo, fragile. Chi è fragile si sente triste e la tristezza lo trascina verso la paura, la stessa che il buio richiama nel bimbo.
Di fronte alla paura potrei rispondere o con il disinteresse o con l’aggressione, come fanno molti. Il disinteresse mi porterebbe alla fuga dalla realtà, l’aggressione mi porterebbe a mistificare la realtà nel tentativo di creare un nemico da combattere. Preferisco meditare sulla storia di questi giorni.
L’anniversario di oggi – 11 settembre – mi richiama alla mente e al cuore momenti di contrazione di un popolo che si sono dilatati fino a far serrare le nazioni di fronte a pericoli avvertiti come mortali per la loro identità. Riflettere sulla condizione di come il mondo oggi campa serve per svegliarmi dall’incubo e ritrovare l’eroismo della ragione e della volontà.
Il terrorismo, la crisi economica, il fenomeno migratorio non sono nati forse in quel drammatico giorno?
E il declino dell’Unione Europea non trova forse i suoi inizi nelle manifestazioni di isterismo collettivo ingigantito da coloro che mettono in campo forme di proteste solo per fomentare vecchi rancori e strumentalizzare i nuovi?
Il terrorismo non ha trovato un’Europa unita, coesa, per il semplice fatto che l’Europa unita non esiste. Il vecchio continente è solo unificato da trattati, convenzioni, leggi, direttive, raccomandazioni, ma non ha un orizzonte comune, una visione condivisa. L’Europa proietta un’immagine drammatica di sé e del suo futuro, è incerta sulla propria identità, è lacerata da contrasti, ferita proprio in quella che avrebbe dovuto essere la sua caratteristica, e cioè l’unità nella diversità.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito a tre momenti simbolici e informali che dovevano rilanciare il processo d’integrazione, ma che hanno viceversa prodotto zuffe verbali tutte europee e sgominato i lodevoli tentativi di rilancio.
Il vertice informale dei ministri degli esteri dei sei paesi fondatori alla fine di giugno, che nelle intenzioni voleva riallacciarsi allo spirito dei padri fondatori, non è riuscito a conciliare gli interessi degli elettorati di ciascun ministro con una visione unitaria dell’Europa.
A Ventotene, i successori di De Gasperi, Schuman e Adenauer si sono ritrovati per rendere omaggio a Arturo Spinelli nel centenario della nascita (dimenticando gli altri due estensori del manifesto federalista: Ernesto Rossi e Eugenio Colorno), ma, al di là dell’enfatica passerella, i tre leaders hanno solo convenuto di accettare una proposta del premier italiano per trasformare le vecchie celle del carcere di Ventotene in un centro per la formazione della coscienza europea fra i giovani, dimenticando che un simile progetto (“La fondazione Europea”) già esiste, ma non opera proprio perchè il consiglio europeo non lo finanzia.
Ad Atene, infine, si sono riuniti i capi socialisti dei governi dell’area mediterranea: altra passerella, altre dichiarazioni (dei singoli!), altre foto di gruppo, ma non una parola concreta e unitaria per contribuire tutti assieme a far emergere nel Medio Oriente un nuovo ordine più pacifico, per fare del Mediterraneo un luogo d’incontri, di scambi, per elaborare una comune politica mediterranea.
L’unità europea si doveva raggiungere con l’evoluzione dell’unità economica che, passando attraverso un mercato comune e una moneta comune doveva giungere ad un’unica politica finanziaria, bancaria e fiscale. Ma questa evoluzione ha intiepidito la passione politica e oggi assistiamo a contrasti sulle politiche economiche vincolate alle leggi dell’unica politica veramente federale: quella monetaria. Intanto crescono le diseguaglianze economiche che porteranno ad un punto di rivolta brusca, impetuosa, destinata a far crescere populismi e nazionalismi.
L’Europa non è unita neppure nella politica per gestire gli ingenti flussi migratori: si erigono muri e barriere; i paesi del Nord con qualche ipocrisia sostengono a parole il principio dell’accoglienza, ma nei fatti dichiarano che la loro disponibilità è limitata; alcuni paesi si autoescludono dall’area di Schengen; la Germania della cancelliera Merkel con un umanitarismo pragmatico accoglie un forte contingente di profughi, mentre sulle coste italiane continuano ad arrivare barconi di profughi siriani, etiopici, eritrei, iracheni che fuggono dalle guerre, sudanesi in cerca di libertà, donne e uomini provenienti dall’Afghanistan, dal Ciad, dal Camerum, dallo Yemen in cerca di una condizione migliore, veramente degna dell’uomo. Ma l’Europa tace e non è capace di attuare una politica che sappia mediare il sacrosanto diritto di accoglienza con i diritti di coesione sociale e di sicurezza che chiedono i cittadini dei paesi ospitanti.
Accanto a queste paure si risveglia in me la speranza. Non c’è paura senza speranza, come non c’è speranza senza paura. La storia europea mi ricorda che ai grandi moti di disgiunzione hanno fatto seguito momenti di contrazione in cui inizialmente un solo popolo e in seguito più nazioni si sono serrati in schiera di fronte a pericoli avvertiti come mortali. Non l’Europa, ma UN’ Europa ha sempre risposto alle grandi sfide della storia.
Per dissolvere i provincialismi beceri, per convincere gli ostinati difensori dei propri confini, per sconfiggere la tracotanza delle multinazionali che, complici governi nazionali, sbaragliano una salubre concorrenza, per combattere la pedante eurocrazia occorrerà che i cittadini europei abbiano un’insurrezione della coscienza in grado di attuare l’unità politica dell’Europa.
Tre sfide l’ aspettano: combattere il terrorismo, progettare una comune politica per l’immigrazione, rilanciare l’economia. Tre sfide realistiche. E per me realismo è ottimismo senza paure.
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