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Politica

REFERENDUM/1 IL DOMANI, LA STABILITÀ

GIANFRANCO FABI - 16/09/2016

referendumTra fine novembre e inizio dicembre saremo chiamati a votare con un “sì” o con un “no” al referendum confermativo della riforma costituzionale approvata nei mesi scorsi dal Parlamento. Sul fronte del “sì” è schierato tutto il fronte governativo, con il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che in alcune dichiarazioni, poi ridimensionate, aveva annunciato il proprio ritiro dalla vita politica in caso di bocciatura popolare. Il fronte del “no” è molto variegato: va dall’estrema sinistra ai dissidenti del Partito democratico, dall’estrema destra a Forza Italia, dai grillini alle associazioni dei partigiani. E le ragioni del “no” sono le più diverse: c’è chi vuole dare soprattutto una spallata al Governo, al di là dei contenuti della riforma, e c’è chi ritiene che questa riforma sia complessivamente insoddisfacente e soprattutto incapace di risolvere i veri problemi della politica. Ma sulle possibili alternative le divisioni sono altrettanto forti: c’è chi non vuole cambiare nulla, chi chiede riforme ancora più drastiche (come l’abolizione pura e semplice del Senato), chi vorrebbe una nuova assemblea costituente.

L’insieme di questi fattori rischia di portare ad una campagna referendaria in cui i veri argomenti della riforma restano in secondo piano, schiacciati dai pregiudizi ideologici e sovrastati dagli interessi politici di breve termine.

È allora forse opportuno ricordare con sintetica concretezza i punti centrali della riforma per sottolineare come il “sì” abbia tanti buoni motivi per essere scelto, ma come vi siano anche fondate, legittime e motivate ragioni per cui si possa votare “no” senza essere additati a distruttori della democrazia.

I punti più importanti della riforma costituzionale sono: la fine del bicameralismo perfetto attraverso una modifica sostanziale del Senato; modifiche per l’elezione del presidente della Repubblica; abolizione del Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro; riforma del titolo V della costituzione con nuova ripartizione delle competenze di alcune materie tra Stato e regioni; modifica delle modalità con cui i cittadini possono richiedere l’indizione di referendum abrogativi e proporre leggi d’iniziativa popolare.

La riforma del Senato è uno dei punti più importanti e più delicati. Nella riforma è la Camera dei deputati, che rimane immutata nei suoi 630 membri, ad avere il pieno potere legislativo: tra l’altro sarà il suo presidente a diventare la seconda carica dello Stato, in sostituzione, se necessario del presidente della Repubblica. Il Senato non sarà più elettivo, sarà composto da 95 membri (più cinque senatori a vita), scelti in proporzione alla popolazione dalle singole regioni e la loro nomina e revoca sarà strettamente collegata alla vita dei Consigli regionali. Il Senato non voterà la fiducia al Governo e avrà poteri di intervento solo sulle leggi costituzionali e su quelle che riguarderanno le autonomie locali: in teoria potrà anche discutere ed emendare anche tutti i progetti di legge approvati dalla Camera, ma sarà comunque quest’ultima ad avere l’ultima parola.

È proprio il ruolo del Senato uno dei punti contrastati della riforma: si rischia infatti di creare un ramo del Parlamento di serie B, composto da persone che hanno altri incarichi politici  (consiglieri regioni e sindaci), che rappresentano solo formalmente le Regioni, che non hanno diritto ad una indennità, ma solo a rimborsi spese tutti da definire.

In pratica gran parte del potere politico va alla Camera dei deputati. È per questo che nasce un collegamento diretto con un’altra riforma voluta dal Governo: quella del nuovo sistema elettorale, chiamato ormai comunemente “Italicum”. Questa legge, che non è oggetto del referendum, si caratterizza per la sua logica fortemente maggioritaria: il partito che al primo turno supera il 40% dei voti o, se questo non avviene, vince al successivo ballottaggio, ottiene una sicura maggioranza di 340 deputati. In pratica un partito che rappresenta il 20/25% del corpo elettorale può governare per cinque anni il Paese. È il prevalere della logica della governabilità sul valore della rappresentanza.

L’insieme di riforma costituzionale e legge elettorale (quello che i giuristi chiamano “combinato disposto”, cioè l’effetto congiunto di due provvedimenti diversi)  può aiutare a dare stabilità ai Governi, ma pagando il prezzo del prevalere di una minoranza. Non è il massimo nella prospettiva di una necessaria coesione nazionale e di una spinta al dialogo costruttivo tra le forze politiche.

Vi è poi un altro punto della riforma particolarmente delicato. E la sostanziale riscrittura del rapporto tra lo Stato e le Regioni con l’abolizione delle materie su cui ora era prevista una legislazioni “concorrente” e un forte accentramento dei poteri con una esplicita clausola di supremazia:  dopo l’elenco delle poche competenze rimaste alle regioni si afferma infatti che “per tutelare l’unità giuridica o economica del Paese o l’interesse nazionale, su proposta del Governo, la legge può intervenire in materie non attribuite dalla Costituzione alla competenza esclusiva dello Stato”.

Se il Senato e le autonomie locali sono due punti critici non si può dimenticare come la riforma compia anche oggettivi passi avanti largamente condivisi. Come l’abolizione del Cnel, un organo che peraltro la politica aveva già da tempo messo in un angolo, o l’obbligo per la Camera di esaminare le proposte di legge di iniziativa popolare.

Vi sono quindi buoni motivi per il “sì”, se si ritiene la riforma un compromesso accettabile, come per il “no”, se prevalgono i timori sulle opportunità. Discutere fa parte della logica della democrazia. Senza appiccicare etichette di comodo e soprattutto senza far credere che il “si” o il “no” risolvano tutti i problemi della politica. In entrambi i casi infatti il cammino da compiere passa sicuramente dagli strumenti, cioè dalle istituzioni, ma deve avere obiettivi chiari e definiti. Le riforme possono darci strumenti migliori (o peggiori), ma la politica deve essere fatta soprattutto di contenuti, di valori e di volontà di guardare al bene comune.

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