Una constatazione quotidiana. La grande maggioranza degli adulti non sa dialogare, al più confrontarsi o dibattere; non sa discorrere e pensare insieme dialetticamente, ma solo polemizzare l’un con l’altro. Non è un fenomeno nuovo né è tipico del nostro tempo. È emerso con la nascita della filosofia; è anzi, sulla carta, la sua prima ragion d’essere. Non vi è cultura superstite rispetto al dominio occidentale che, anche nei suoi frantumi, sfugga a questa «regola».
Non per nulla, a partire da Socrate, molti hanno fatto del dialogo e della dialettica non solo un programma filosofico, ma anche un disegno pedagogico. Si tratterebbe di consentire l’estensione dei procedimenti dialogici anzitutto ai filosofi o aspiranti tali, e di lì possibilmente a ciascun individuo indipendentemente dal sesso, dal colore della pelle, dal ceto sociale e dagli studi compiuti. Così nel Simposio il Socrate di Platone riconosce come sua unica maestra la sacerdotessa Diotima; e nel Menone uno schiavo di colore, analfabeta e del tutto ignaro della geometria, una volta posto in possesso degli elementi di base, è in grado di dimostrare il teorema di Pitagora.
Non è difficile convenire su questo asserto. Nemmeno è troppo difficile convenire sul significato di termini come dialogo, confronto, polemica. La difficoltà è di esercitarci ad assumere, anche grazie a buoni modelli, comportamenti ed abiti mentali che ci orientino verso il dialogo e la dialettica anziché al confronto e alla polemica. Così, tra i tanti programmi che la filosofia, lasciata a se stessa, è stata costretta a disattendere, il dialogo non è certo tra gli ultimi.
Ma muoviamo, come sempre, da una preliminare explicatio terminorum.
Dialogo, alla lettera, è uno scambio di parole che costruisce un ponte, un traghetto, un attraversamento tra due interlocutori. Con uno slittamento di senso, possiamo parlare della condivisione – per qualcuno addirittura eticamente connotata, come in Habermas – di una procedura discorsiva di tipo intersoggettivo, nella quale due o più individui, che rappresentano solo se stessi e mettono da parte ogni medioevale principio di autorità, si incontrano a tu per tu in un luogo reale o a distanza (ad esempio in forma epistolare), per un tempo volta a volta definito ma continuativo, e lì mettono in gioco le proprie convinzioni e con esse le loro stesse persone, in condizioni di parità e riconoscendosi reciprocamente confutabili, fallibili e tributari degli apporti di quanti concorrono alla discussione.
L’argomentazione dialogica non è competitiva, non contempla vincitori o supremazie, non è sottoposta al verdetto di un giudice, si fonda anzi sull’ascolto e l’aiuto reciproci, è fluida, aperta, priva di margini rigidi e verte intorno all’esame di problemi o allo scambio di conoscenze e di vissuti. Soprattutto unisce, è anzitutto condivisione di qualcosa, non distanziamento e separatezza. Da Socrate a Rawls, il dialogo è definibile metaforicamente come un tavolo a cui si siede per con-venire, per giungere insieme a una meta costruttiva. È di questi tavoli che difettiamo. Quel che chiamiamo dialogo altro non è che uno scambio tra sordi dove non valgono né la lettura labiale né il linguaggio dei segni. Non c’è interlocuzione.
Viceversa il confronto consiste nel porsi l’uno di fronte all’altro per misurarsi. Anche un confronto può essere dialogico, ma più spesso equivale a un ingaggio per la conquista del consenso. Per bocca del Socrate del Protagora, Platone addita nel primo senso il discorso che vince e convince, di contro al secondo, dove vince chi persuade con pratiche retoriche. Il confronto presenta una radice agonistica, che lo rende simile a una lotta: equivale a un battersi. Da qui il termine dibattito, che sottintende un significato negativo, poiché si volge a negare l’argomento dell’altro piuttosto che ad affermarne uno in comune, che tenga conto dei diversi apporti e li includa.
Mentre il dialogo attribuisce a tutti gli interlocutori il titolo di vincitore perché in verità non vi è posta in gioco, perché non vi sono né vincitori né vinti ma solo una condivisione del percorso di ricerca e dei suoi risultati, nel confronto vi è necessariamente prevalenza, un vincitore di contro a un vinto. La versione benevola del confronto è la disputa medioevale attorno a una quaestio, a uno snodo concettuale di tipo fondativo. Ma i duelli erano spesso tutt’altro che benevoli. Abelardo, il più grande, attrasse a sé un odio diffuso alimentato dal peggiore dei mali, l’invidia. Il guaio è che oggi tra i competitori non c’è di mezzo un arbitro, o vi è ma è corrotto, come in certi giudizi visti alle Olimpiadi nella lotta o nel pugilato a favore di qualche dittatorello elettivo, russo o turco.
Nell’ambito del dialogo, la discussione – che ha a che fare con lo scuotimento – consiste soprattutto nel valutare giudizi in contraddizione tra loro: si scuotono a turno due alberi, e i frutti che cadono non sono commestibili. Possiamo così instaurare due modelli di confronto: quello positivo, o dialettico, e quello negativo, conflittuale, che chiamiamo polemico.
Il miglior esempio di confronto costruttivo e cooperativo è il complemento delle Meditazioni metafisiche richiesto da Descartes ai suoi interlocutori in forma di “obiezioni e risposte”. Sviluppare obiezioni è un esercizio di lealtà, che mira a convalidare una teoria qualora si mostri in grado di reggere alla ricerca delle sue confutazioni, o a smentirla ove invece non regga fino a sfaldarsi.
La parola polemica viene da pòlemos, guerra: è la pratica di confronto che simula un conflitto. Essa presuppone animosità, tensione e aggressività tra i protagonisti; è una tenzone armata di parole, che esclude ogni mediazione che non sia quella della pace imposta dal vincitore. Per la tarda sofistica la polemica serviva a “rendere forte il discorso debole”. Un fine siffatto consentiva e ancora consente l’impiego di mezzi impropri di discussione: colpi bassi, sviamenti, abusi retorici, sovrapposizione agli argomenti degli altri. Non si tratta affatto di cercare insieme, ma di contrapporre tesi configurate a priori in vista di un fine pratico: la persuasione degli altri per farne strumento dei propri disegni. Il discorso è elastico, si presta ad essere tirato là dove serve. La dissimulazione è indispensabile: il fine del confronto polemico viene celato da una finta obiettività discorsiva. Dietro la soggettività dei giudizi non vi è tanto il pensiero, quanto l’interesse. Invero è sempre stato così: il pensiero è molto spesso solo una coperta che è facile tirare dalla propria parte.
Condotta un tempo a distanza, la polemica oggi si svolge faccia a faccia ed è costruita volutamente dai media per ragioni di audience, come fosse un incontro di judo o di pugilato entro il format di trasmissioni a carattere politico condotto da veri e propri professionisti dell’ingaggio, il cui ruolo non è più quello di arbitro chiamato a moderare ma di istigatore, non di pompiere ma di incendiario. Questo modello è di facile apprendimento: il suo segreto consiste nell’opportunità di sedurre e piacere, strumento indispensabile al prevalere, facendo leva sulle inclinazioni a credere degli spettatori, che con l’applausometro si sentono protagoniste, come i tifosi in una partita di calcio, senza poterlo essere. In fondo, più alto è lo strepito e meglio è. In una «società dello sfogo», dove si risponde immediatamente a degli impulsi emozionali e intestinali di contrasto, veri e propri «riflessi condizionati», l’abilità nel convincimento si mostra in verità alquanto mutevole: in genere premia chi riesce a presentarsi come outsider, come estraneo alle dinamiche sistemiche dominanti. La retroazione delle persone a queste pratiche di fatto mercantili è semplicemente devastante. I tempi facilitano proteste sterili, infeconde, spesso cattive.
In queste condizioni, il confronto semplicemente non esiste: il discorso si riduce ad asseverazioni o a negazioni, vuote conferme o smentite degli argomenti seconda che siano graditi o sgraditi. I social networks incentivano all’estremo questa faciloneria, questa rozzezza, questo schematismo privo di interno svolgimento. Molti sono presi da uno stato febbrile. Ognuno ostenta sé: i più non sanno fare altro, non sanno svolgere altro che questo ruolo subordinato e greve. In qualche caso la polemica ripaga di sconfitte per sempre consumate nel mondo, e fa assaporare l’antico piacere per la “lotta”, una ragion d’essere e un’evocazione programmatica ormai politicamente desueta.
Sono pessimista. Mi auguro di sbagliare, ma a mio parere siamo perduti. Nulla ormai è più atopico, non più localizzabile – nemmeno utopisticamente – della società discorsiva. La democrazia del confronto che prevede un solo giudice titolato, l’opinione pubblica informata, ossia uno dei pilastri della civiltà liberale, sembra distrutta e non più ricostruibile, almeno alla profondità di campo consentita al nostro sguardo in questo tempo. La prudenza valutativa è accantonata: conta solo “delegittimare l’avversario” ed esaltare la propria fazione. Spesso assistiamo a forme nemmeno troppo mascherate di fondamentalismo. L’estinzione del dialogo, che presume amicalità, benevolenza e confidenza, fa spazio a una sola logica: lo schema amico/nemico.
Possiamo solo rimpiangere l’antica dialettica: come metodo, come processo, come cooperazione inclusiva che contempla l’assunzione nell’argomentare della costruttività della negazione. In ultimo, lo scopo della filosofia è una solo: l’esercizio del dubbio. In un’epoca di sbrigative, sommarie e instabili certezze, la pratica del pensiero resta, con Hegel, “una maniera di considerare gli oggetti per cui si mostrano, in essi, motivi e lati che rendono incerto tutto quello che pareva certo”. Ma di questo si dirà nel prossimo articolo.
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