Malgrado appartenga al tempo della “Prima Repubblica”, di cui oggi è lecito parlare solo male, e riguardi per di più una regione allora governata dalla Democrazia Cristiana, della quale oggi è lecito parlare solo malissimo, il caso della ricostruzione dell’alto Friuli colpito dai due terremoti del 1976 torna oggi inevitabilmente in primo piano come esempio da studiare e da seguire. A chi avesse qualche dubbio suggeriamo un rapido viaggio di perlustrazione a nord di Udine da Tricesimo, dove iniziava la zona terremotata, fino a Tolmezzo, Moggio Udinese, Venzone e Gemona. In centri che nel 1976 erano ridotti a distese di rovine già meno di dieci anni più tardi tutto era stato ricostruito. Oggi poi delle conseguenze del terremoto non si vede più la minima traccia, tanto e vero che nel Friuli dei nostri giorni si pone il problema di come ricordarlo ai più giovani, molti dei quali, a soli quarant’anni dall’evento, non ne hanno più una precisa notizia. Né mancano quelli che addirittura non ne sanno nulla.
Proprio però per rendere tale esempio utile nella prospettiva della ricostruzione di Amatrice e delle altre località colpite dal recente sisma conviene andare al di là di apprezzamenti generici per capire quale insieme di fattori abbia reso possibile quell’esemplare ricostruzione. Lo faccio con lo svantaggio, ma credo innanzitutto con il vantaggio, di esser stato tra coloro che in quei mesi condivisero come volontari la fase del pronto soccorso e dell’emergenza, e poi successivamente pure quella della ricostruzione.
Anche se la parola specifica non era ancora entrata nel linguaggio comune, quell’esemplare ricostruzione fu in sostanza un grande caso di applicazione ante litteram del principio di sussidiarietà. Questo grazie al positivo combinarsi sia di obiettivi fattori culturali ed economici che di scelte politiche e di modelli culturali consapevoli. Innanzitutto il tipico spirito di iniziativa personale dei friulani nella cui lingua non a caso “da soli, da sé” si dice “di bessôl” con espressione che attribuisce al far da soli un’insolita connotazione immediatamente positiva; e inoltre, allora ancor più che adesso, un’economia locale caratterizzata da una diffusa competenza in campo edilizio e da molte industrie sia piccole che medie specializzate nella produzione di serramenti, di mobili e di altri oggetti per la casa: una circostanza provvidenziale grazie a cui la ricostruzione si trasformò in un potente volano di sviluppo dell’intero Friuli. A tutto questo però si aggiunsero altri due elementi: da un lato una Regione a statuto speciale che usò bene dei propri estesi poteri in campo urbanistico ed edilizio e dall’altro forze sociali che con successo si mobilitarono a tutela di modelli di intervento che oggi appunto chiameremmo di tipo sussidiario; e si opposero con successo alle pressioni di chi cercava di imporre quei modi di agire centralizzati e burocratici che avevano condotto in Sicilia alle spettrali pseudo-ricostruzioni della valle del Belice.
In primo luogo ci fu subito vasto consenso sull’idea che si dovesse ricostruire ogni paese ed ogni casa “dove era e come era”, e in secondo luogo che si dovesse passare direttamente “dalle tende ai mattoni”, ossia dall’alloggio di emergenza all’abitazione definitiva anche a costo di dover trascorrere diversi inverni in condizioni di disagio. Questo nel convincimento che se lo Stato o la Regione avessero speso troppo in alloggi provvisori sarebbero poi venute meno sia l’energia politica che le risorse economiche necessarie per finanziare la ricostruzione vera e propria. Osservo per inciso che dopo il terremoto dell’Aquila ci fu chi cercò, ahimè invano, di convincere Berlusconi a non lasciarsi spingere nella trappola delle “new towns”, in cui la sinistra lo stava spingendo. Una trappola nel quale invece egli si infilò a tutto vantaggio di coloro che dopo avercelo spinto, adesso cantano in coro contro di esse.
All’avvicinarsi del primo inverno, quando molte famiglie era ancora alloggiate in modo precario, fu poi molto significativo lo scontro tra l’ultra-sinistra, che aveva anche l’appoggio degli scout dell’Agesci, da un lato, e dall’altro i volontari dell’Associazione Nazionale Alpini, Ana, e quelli di Cl a proposito del ricovero dei terremotati rimasti senza tetto. L’ultrasinistra puntava ad estendere il più possibile le tendopoli, mentre l’Ana e Cl sostenevano che si dovesse limitarle al massimo offrendo in alternativa roulottes in prestito gratuito in cui le famiglie potessero passare l’inverno restando il più vicino possibile alle loro antiche case. Oltre alle roulottes venivano pure forniti piccoli magazzini prefabbricati chiudibili a chiave in cui riporre tutto ciò che era stato possibile ricuperare dalla casa distrutta o lesionata. Le due diverse scelte non erano semplicemente tecniche ma derivavano da due diversi modi di vedere i terremotati: se come gente da raccogliere e da “gestire” mentre altri si sarebbero occupati della ricostruzione dei loro paesi oppure se come protagonisti della rinascita post-terremoto da aiutare perciò a rimanere il più possibile sul posto. Si noti inoltre che mentre il metodo delle roulottes mirava a non aggiungere distruzione a distruzione lacerando anche il tessuto sociale e il tessuto economico quello dei campi di raccolta, delle grandi tendopoli tendeva fatalmente a trasformare i terremotati in ospiti passivi e dipendenti.
Ci si oppose anche con largo successo all’allontanamento dei bambini e dei ragazzi in età scolare dalle zone colpite nella convinzione che dovessero restare con i loro genitori anche nel primo difficile inverno dopo il sisma. Con la loro naturale vitalità infatti in circostanze del genere i più piccoli non sono di peso bensì di sostegno ai più grandi. Chi ha visitato quest’anno il Meeting di Rimini ha potuto vedere una mostra dedicata all’opera di maggior rilievo nata da tale circostanza: la scuola fondata e tuttora diretta a Tarcento dal sacerdote ambrosiano don Antonio Villa.
La ricostruzione ebbe poi luogo non a colpi di commissari governativi bensì dando tutto il sostegno possibile alla volontà delle famiglie di ricostruire o riparare di propria iniziativa le case distrutte o danneggiate (le quali ultime, diversamente da quel che fa vedere la Tv, sono sempre la maggior parte di quelle raggiunte dalle onde sismiche). Ancora nello spirito di sussidiarietà ante litteram di cui si diceva con un’apposita legge la Regione Friuli-Venezia Giulia fece dei sindaci dei suoi dirigenti delegati. In forza di tale delega i sindaci – sottoposti perciò al controllo sociale, che è ben più forte di quello burocratico — ricevevano le richieste di aiuto alla ricostruzione, le vagliavano e erogavano direttamente i fondi a loro responsabilità. In futuro potremo tornare con maggiori dettagli sull’argomento, ma in sostanza il segreto del successo della ricostruzione dell’alto Friuli colpito dai sismi del 1976 sta tutto qui: in una scelta decisa e mai tradita cioè per la sussidiarietà.
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