I diversi ordinamenti sociali hanno sempre risposto alla necessità elementare di ridurre l’incerto se non proprio al certo, quantomeno al probabile, in modo da garantire l’esistenza delle comunità e degli individui con uno scenario prospettico sufficientemente stabile, tale da rendere prevedibile, e perciò potenzialmente sottoposto al dominio razionale, ciò che sarebbe altrimenti apparso il frutto del caso, del caos, del fato, della sorte o della forza di un Dio irresistibile e insondabile.
Un esempio tra i più remoti può venire dagli sforzi compiuti dalle caste sacerdotali delle antiche civiltà dell’attuale Medio Oriente per predire alcuni eventi celesti, come le eclissi, o per governare il calendario. Tali sforzi non sarebbero pienamente comprensibili se questa necessità non facesse capolino tra le loro motivazioni.
A tale compito di cautela verso il futuro si sono dedicate le istituzioni politiche e sociali, ma anche le culture, in particolare le religioni. Le leggi, sostenute dalla forza, e la condivisione di pratiche relazionali e di norme morali servirono a piegare i comportamenti umani a standard prevedibili, incanalandoli verso stili di vita retti da princìpi interiorizzati all’interno delle comunità nucleari ed estese.
Persino la finalità della guerra potrebbe venir fatta rientrare in quest’ottica. Almeno fino alla comparsa degli armamenti nucleari, la guerra non è mai stata vista nel suo solo aspetto distruttivo. L’ordine è acquisibile all’interno di uno spazio dato, ma al di fuori vige il caos. Per sottomettere il mondo alla prevedibilità si doveva o estendere lo spazio dell’ordine, o portare ordine nello spazio esterno mediante conflitti rivolti non alla conquista, allo sfruttamento o alla sottomissione, ma alla disciplina delle relazioni. Il nomos, come notò Carl Schmitt, fonda il territorio e insieme ne è fondato, ed è squisitamente terrestre rispetto all’indistinto spazio marino.
Previsione significa alla lettera anticipazione razionale (e in questo si distingue dal presentimento) di un futuro dato per conoscibile e altamente probabile. È la previsione, con quanto ha di opinabile (o di credenza abitudinaria, come voleva Hume), ma altresì con il suo contenuto di conoscenza e di esperienza «realistiche», a fondare la scelta, la decisione, l’azione. A sua volta, l’opinabilità comporta l’adozione di procedure di riduzione consapevole del rischio quali supplementi a conforto delle decisioni prese. All’incirca nel medesimo modo la probabilità può essere sottoposta a calcolo: un calcolo tanto più complesso quanto maggiori sono le variabili considerate, e soprattutto quanto più numerosi sono gli attori, comunque configurati, dei processi. A ciò si è accinta, nel secondo dopoguerra, la cosiddetta «teoria dei giochi».
Nel primo ‘900 l’idea di fallibilità, ossia l’inevitabile esposizione all’errore, ha assunto con il pragmatismo una funzione conoscitiva di primo piano: solo un agire per prove consapevoli e mirate e per errori solo apparentemente casuali ed elevati a oggetto di riflessioni altrettanto consapevoli, può configurare la legittimità di una previsione e la contemporanea – sia pur teorica – prevenzione dell’errore, e dunque consentire una dinamica utile per la specie umana. Di più: in Peirce la nostra conoscenza di un qualsivoglia oggetto o sequenza ordinata di atti non può separarsi dalla nostra concezione degli effetti prodotti da quell’oggetto o da quella sequenza. Sempre Peirce notò il carattere nocivo del dubbio per l’efficacia della prassi, e dunque per la conservazione dell’individuo organico, fondamento irriducibile di ogni aggregato sociale. Un comportamento, in questa logica, è tanto più efficace quanto più è radicato in stabili convincimenti (che Peirce chiama, seguendo Hume, «credenze»). Assecondando su un punto molto discutibile la controversa (e decisamente outofdate) riduzione crociana delle scienze a saperi pratici, la previsione ha le sue radici ultime in una serie di concetti empirici derivati e confermati dalla prassi che fungono da anticipazione del futuro. Ma Croce ha avuto il torto gravissimo di aver confuso, nel fervore della sua polemica antipositivista, la previsione con la predizione, con la profezia, che è ovviamente un brutto vezzo di chi soffre patologicamente di ideologia.
Fino a pochi anni fa, rispetto ai primi decenni del ‘900, ha dominato una visione decisamente più aperta: la previsione ha un fondamento semplicemente probabilistico. Il mondo – incluso quello fisico – ha in sé un largo margine di indeterminazione. Spesso ciò che chiamiamo «legge», o «processo», non è altro che una sequenza casuale che appare deterministica solo a posteriori. Il rapporto tra ipotesi e risultato, tra circostanze e comportamento, non è rigido, univoco e pienamente determinato e determinabile. La previsione deve contenere in sé l’imprevedibile. È rimasto però solido il convincimento che l’indeterminazione sia in ultima analisi una variabile della determinazione, per quanto decisiva essa sia, almeno rispetto ai grandi numeri. L’imprevedibile viene assunto dentro la permanente legittimità della previsione.
Come possiamo applicare queste categorie filosofiche all’agire quotidiano nel nostro tempo politico, economico e sociale? Negli ultimi due decenni, grosso modo dal 1989, non è più possibile assumere l’imprevedibile nello spazio concettuale, soltanto reso più elastico, della previsione. È semmai la previsione una variabile dell’imprevedibilità. Il mondo è ben più che parzialmente indeterminato. È indeterminabile, persino in campi ristretti, come nelle previsioni del tempo, sempre aperte a smentite o a variazioni all’ultimo momento. La catena delle interdipendenze è diventata più lunga, più aperta, sempre meno dominabile proprio perché globale in senso estensivo ed intensivo. Gli attori istituzionali e quelli organizzati a fini collettivi si sono moltiplicati, e agiscono spesso in modi non prevedibili.
Spesso le retroazioni dei nostri errori di previsione, o presunzione di poter governare dei processi, hanno manifestato effetti catastrofici, come nelle guerre condotte in Afghanistan, Iraq e Libia. Assistiamo a una crescente complessità, così simile a un crescente caos economico, politico e sociale da lasciarci impotenti, anche se sottotraccia vecchi e nuovi poteri seguitano a manifestare, ma in modo oscuro e invisibile, la loro forza, che definirei tellurica, ossia produttrice di disordine e talvolta di devastazione.
La società dell’imprevedibile ci porta ben lontano dalla società del rischio mirabilmente descritta più di venti anni fa da Ulrich Beck. Il rischio appariva ancora calcolabile, riducibile a una dimensione, a un algoritmo, sia pure con variabili indeterminabili. Ora nulla sembra avere una dimensione che abbia il potere di domare i fenomeni e ricondurli ad un ordine, quale che sia.
Come ci tocca vivere nell’era dell’imprevedibilità? Come sempre nessuna ricetta, solo tre indicazioni.
Possiamo anzitutto agire con cautela: sapersi esposti e fragili ed accettarsi per tale è utile, sentirsi invincibili no. Possiamo poi accorciare la nostra rete di interdipendenze, ricostruendo su basi nuove le forme di relazione societaria, in direzioni più eque, più compatibili con i cosiddetti beni comuni e con un futuro desiderabile. Agire localmente significa anche agire globalmente, se esperienze consimili compiute in ogni dove si sommano e producono modelli di vita competitivi, che si rendono apprezzabili per la loro qualità.
In terzo luogo possiamo, anzi dobbiamo sfuggire ai demoni, ai mostri che l’imprevedibile suscita nella nostra testa, ai babau della nostra infanzia, che però non ci addestrano più a vincere la paura, ma ci assuefanno a sottometterci ad essa. Consegnarsi alla paura è un atto di resa. L’imprevedibile, avendo il sopravvento, si muterebbe in un caos che risucchia nel proprio buco nero la possibilità stessa della storia, se non per pochi decisori e per molti soggetti estemporanei che agiscono come schegge impazzite.
Abbiamo bisogno di una politica e di un sistema economico che, anziché aizzare le patologie, si facciano clinica delle idee e delle pratiche. Idee buone, semplici, gestibili, non mitologiche (come le fallimentari dottrine liberiste: ve lo vedete l’imprevedibile affidato al solo mercato?), praticabili e traducibili immediatamente in azioni congruenti.
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