All’inizio degli anni Ottanta Renato Guttuso riceve da monsignor Pasquale Macchi l’incarico d’affrescare l’edicola della terza cappella del Sacro Monte. La precedente pittura del Nuvolone è macchiata e sbiadita dal tempo, vi si sovrapporrà un acrilico del maestro di Bagheria rappresentante la fuga in Egitto. Nascono polemiche sull’opportunità dell’intervento, contrasti sull’idea di mischiare stili d’epoche diverse lungo il percorso seicentesco studiato dall’Aguggiari e dal Bernascone, perplessità sull’affidamento a un maestro d’arte che è anche militante comunista. Se ne discute e scrive molto. Mi sono dedicato da ormai qualche tempo al mestiere del giornalista. Dico mestiere perché parlare di professione, per l’artigianato della penna, forse è esagerato. Riferisco più volte sulla “Prealpina” del progetto di Macchi e Guttuso che va a compimento nell’estate del 1983. L’acrilico è pronto, l’artista lo illustra in anteprima al presidente del Consiglio Andreotti e al sindaco Gibilisco, allestisce a Villa Mirabello una mostra di sue opere realizzate in prevalenza nello studio di Velate, viene ricambiato con la concessione nel mese di ottobre della cittadinanza onoraria. Sarà il terzo varesino ad honorem dopo Giuseppe Garibaldi, Benito Mussolini e Charles Poletti: altri seguiranno. Dice nel giorno solenne: «Dipingere è bello, dipingere a Varese è una cosa meravigliosa».
È per me una cosa meravigliosa -so di esagerare, ma capirete l’eccesso sentimentale- scoprire che Guttuso era stato intervistato da mio padre, Mario, ventitré anni prima. Pur essendo divenuto direttore della “Prealpina” all’inizio del 1960, aveva infatti mantenuto -dovette rinunziarvi, per i troppi impegni, pochi mesi più tardi- la corrispondenza con alcuni giornali. E il “Giorno”, per il tramite del caporedattore Paolo Murialdi, gli ordina, nell’ambito d’una inchiesta sulla Biennale veneziana e la Quadriennale romana che si tengono quell’anno, d’interpellare il pittore nel suo atelier in terra varesina. Si parlano, convengono sulle domande, il maestro s’impegna a inviare per iscritto le risposte volendo calibrare ogni parola per il timore di non alimentare il già troppo acceso dibattito. Le spedisce al cronista-direttore il 3 marzo del ’60, accompagnate da una lunga lettera. Intestazione: Velate di Varese, villa Guttuso Dotti. Scrittura marcata, declinante a destra, inchiostro blu, tratto deciso. «Come vedrà -spiega- ho accennato alle principali questioni relative alla Biennale e alla Quadriennale, ma forse non sono riuscito ad argomentare come avrei voluto dovendo rispettare lo spazio a disposizione. Mi sono tuttavia tenuto a un tono di conversazione, cosicché queste risposte, se lo riterrà opportuno, possano essere agevolmente pubblicate». Poi l’appuntamento per un successivo incontro.
Quest’incrocio con Guttuso non è stato l’unico passaggio giornalistico comune tra me e mio padre. M’è capitato di ritrovarne le tracce sui percorsi della cronaca, dell’economia, della cultura, della politica, dello sport. Ho spesso raccolto testimonianze che ne documentavano il fervido impegno professionale, e si sono moltiplicate le difficoltà mie a onorare un confronto difficile. Talvolta improbo. Tal’altra impossibile. Lui mi ha sempre agevolato. Anzi, in qualche modo mi ha sempre diretto anche quando non dirigeva più.
È stato il mio intransigente direttore dall’estate del ’69 -quando iniziai a scrivere sulla “Prealpina” cercando di dar conto della fuga di Motta, Merckx e Gimondi in una Tre Valli Varesine che passò per due volte sul Cuvignone- sino all’autunno dell’83, quando decise ch’era arrivato il momento di ritirarsi. È stato il mio non meno severo direttore da allora in poi. Aveva trasformato un locale della casa di via Piave, quello che un tempo era stata la mia arruffata stanza di studente, in una redazione “naif”, arredata con schedari e raccoglitori, e vi aveva archiviato giornali, documenti, libri, dossier d’ogni tipo.
Aggiornava con scrupolo l’agenda che troneggiava sulla scrivania rococò, era informato di tutto quanto accadeva a Varese e di come i giornali ne davano conto, catalogava le diverse materie in cartelline di plastica o cartoncino titolate in colore rosso o blu secondo l’argomento, e mi teneva un quotidiano rapporto sul lavoro da me (e non solo da me) svolto commentando gli appunti presi su uno o più block notes: benino, bene, male, malissimo. Qualche volta, avendo la coda di paglia e prevedendo un responso negativo, ripiegavo sulla telefonata disertando la tacita convocazione. Naturalmente lui non credeva alle scuse che accampavo, ma credeva anche che io non mi dovessi affatto scusare. Faceva finta che fossi prima un giornalista e poi il suo unico figlio, ma era lo stesso infingimento cui ricorrevo io accreditandogli prima il rispetto dovuto a un direttore e poi l’affetto tributato a un padre.
Abbiamo tenuto coperte per più di vent’anni queste carte d’un gioco stravagante e complice, poi le tribolazioni della lunga e dolorosa malattia che lo colpì ci costrinsero a scoprirle. La notte in cui morì, in un letto dell’ospedale, gli feci aria, sino a quando riuscì a respirarla, con la copia della rivista “Il Sacro Monte” che recava l’ultima sua poesia dialettale. Mi strinse forte la mano e piangemmo insieme, poi lui non ne fu più capace. Non lo sarebbe più stato. Sul comodino, accanto a una pila di medicine e a un bicchiere d’acqua, riposava la copia giornaliera della “Prealpina”. La sua carissima “Prealpina”.
*Il brano è tratto dal libro “La sciarpa verde” (Edizioni Lativa)
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