“Cara Eccellenza, mi perdonerà se uso con lei il confidenziale aggettivo ‘caro’. Lo adopero come lo facevano i primi cristiani con i loro pastori nel senso di “ amato, diletto. Le dirò in tutta confidenza che lei mi è più caro di tanti suoi confratelli vescovi che, al contrario di lei, non hanno il dono della parrèsia, cioè del ‘parlar chiaro’, con franchezza, perché timorosi di molestare con le loro parole il quieto vivere di tante pecore del gregge a loro affidato o, ancor più grave, di adoperare il linguaggio della diplomazia, anziché quello del Vangelo, per non gustare precari equilibri politici.
“Ho letto l’intervista da lei rilasciata recentemente (ndr, un’intervista del vescovo di Ferrara monsignor Luigi Negri) a proposito dell’integrazione dei migranti. Lei afferma che l’integrazione presuppone la “reciprocità”, cioè il rispetto dei valori espressi dalla Costituzione del paese d’accoglienza, delle sue leggi, del valore della persona umana, della sua libertà e dignità. Credo che tutti possiamo affermare questa evidente verità!
“Il fenomeno migratorio a cui assistiamo va conosciuto, analizzato e conseguentemente interpretato e valutato con categorie sociologiche, storiche, religiose. A ognuno il suo compito: ai politici spetterà di gestirlo con una giusta e ordinata legislazione; allo stato, in collaborazione con le organizzazioni di volontariato, provvedere all’emergenza, distribuire le quote di migranti; alla magistratura perseguire chi commette reati; ai vescovi e alle autorità religiose indicare i valori etici che devono accompagnare l’emergenza e l’accoglienza.
“Ciò che mi ha infastidito nella sua intervista è che lei, anziché usare termini evangelici, ha usato una categoria giuridica (“reciprocità”) che appartiene al diritto. Questo campo appartiene ai funzionari statali e ai diplomatici. Gesù di Nazareth nella parabola del buon samaritano racconta che l’abitante di Samaria passa accanto all’uomo gravemente ferito, si fa vicino a lui, soffre con lui, ma non chiede nulla in cambio, anzi prega l’albergatore di prendersi cura del malcapitato e gli promette, al suo ritorno, di corrispondergli il dovuto.
“Questo è il cristiano: colui che va incontro all’altro, al disperato al quale manca pane e acqua; a chi fugge dalla fame, da guerre tribali o provocate spesso da noi che ci definiamo cristiani; a chi vive nella miseria; a chi è senza lavoro; a chi è stato abbandonato. So che costoro sono scomodi, ingombranti, suscitano ripulsione, intimidiscono. Vede: quello che mi fa paura non è il fatto che ci siano dei disgraziati, ma che esistano degli uomini che non li vogliono vedere. È comodo non vedere gli immigrati. Ci sono molte cose che non vogliamo vedere: la morte, il dolore, perfino Dio. E invece i disgraziati rappresentano le realtà più presenti. Se poi li vediamo, li vediamo solo sotto l’aspetto di straccioni, di colpevoli, di terroristi.
“Non ho nessuna voglia di dare a questi povericristi togliendo a chi ha di più. Come pure capisco la giusta collera di coloro che non hanno la casa popolare e la vedono assegnata a uno, povero come loro, ma che dorme sotto i ponti. Siamo alle solite: chi vede se stesso non può vedere colui che è più disperato di lui. Chi ha poca carità vede pochi poveri; chi ha molta carità vede molti disgraziati e, se non può donare al fratello più bisognoso di lui nemmeno un rifugio, ha compassione di lui, soffre con lui.
“Lei dice che noi occidentali ‘abbiamo ammazzato Dio nel nostro cuore’. Non abbiamo ammazzato solo Dio, abbiamo ammazzato l’uomo fatto a immagine di Dio e dovrei, io per primo, togliermi di dosso quel rivoltante e spicciolo fariseismo che giunge a negare l’elemosina a un povero con la scusa che quella moneta andrà a finire in uno stravizio. La conversione che dovremmo praticare un po’ tutti non è quella di chiuderci in noi stessi, di aver paura, ma quella di uscire verso l’altro, verso l’estraneo che è colui che ci viene incontro per primo.
“Capisco che la “reciprocità” è una carta di diritti e di doveri. Ma non si può pretendere dall’ immigrato ‘economico’ o ‘rifugiato politico’ o ‘profugo’ (che triste questa distinzione!), che magari ha vissuto in un capanno o in un relitto di casa corrosa dai bombardamenti, che fugge dalla miseria, che attraversa a piedi chilometri di deserto, che si affida ad un delinquente per arrivare da noi, dove spera di trovare lavoro e pane, non si può esigere, dicevo, che conosca la “reciprocità”. Siamo noi, abituati a vivere più del superfluo che del necessario, che pretendiamo diritti ai quali non sempre corrispondono dei doveri. È una pretesa che dimostra la nostra scarsa sensibilità umana, il nostro buon senso e l’assoluta mancanza di carità.
“Ci sono immigrati, lo so, che non hanno voglia di lavorare, che delinquono, che orinano in pubblico, che schiamazzano, che sono facinorosi, violenti: dovremmo attendere che conoscano la Costituzione per poterli salvare da un naufragio sicuro? O dovremmo immediatamente accoglierli nell’emergenza, per poi integrarli?
“Lei, Eccellenza, dice che prima dell’integrazione deve avvenire la reciprocità. Non è sufficiente: a mio parere, prima ancora deve verificarsi l’inclusione. Le tappe da raggiungere sono cinque: l’emergenza, l’accoglienza, l’inclusione, l’integrazione e, infine, dopo un lungo e paziente lavoro d’educazione, la reciprocità con la concessione della cittadinanza.
“Come può avvenire la reciprocità se non c’è inclusione, che vuol dire accettazione dell’altro? Se tutti non comprendiamo che ogni storia umana si realizza e si sviluppa insieme con gli altri, anche con i “diversi”? Il senso dell’esistere consiste nel continuo invito a vivere assieme agli altri per costruire un mondo migliore.
“Dobbiamo comprendere che l’attesa di questo nuovo mondo è dentro di noi e che il cemento dell’inclusione è la solidarietà non disgiunta dalla giustizia. L’integrazione arriverà dopo e sarà la portatrice di un nuovo umanesimo, quando ci si riconoscerà e rispetterà uguali perché diversi, quando si scoprirà che la mia cultura non è ‘la’ cultura, ma ‘una’ cultura.
“Tutto ciò costa in termini economici. Capisco che l’economia ha le sue leggi, ma tutti hanno diritto alla vita, la stessa che noi cristiani difendiamo dal momento del concepimento fino alla morte naturale. È tragico attendere che gli immigrati dapprima siano accolti, poi inclusi, infine integrati per poi aiutarli a essere degni della loro umanità!
“Lei, citando un gesuita, dice che il fenomeno migratorio ‘è un cancro che non si può trattare come se fosse un raffreddore’. Se questo fosse l’atteggiamento di tanti uomini di chiesa e di cittadini, sorgerebbero ancor più odi, rancori, guerre perché la storia ci dice che con la globalizzazione è finito il tempo in cui l’occidente parlava a tutti di se stesso e proclamava a tutti la sua superiorità.
“Lei, cara Eccellenza, auspica che le nostre comunità cristiane siano come quelle descritte nella lettera a Diogneto. Lo desidero ardentemente anch’io ben sapendo che “ogni terra straniera è patria per i cristiani e ogni patria è terra straniera” (Diogneto V, 1-5).
“Mi creda, suo fratello Edoardo Zin”
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