Discendente dell’antica famiglia varesina dei Castiglioni, quella del cardinal Branda, figlia di un noto imprenditore, Adele Mazzucchelli Orsi (1928-1998) si distinse per il suo amore verso lo sport. Predilesse il volo a vela con tale passione, condivisa anche dal marito, da diventare campionessa mondiale, conquistando record tuttora imbattuti. Schiva, non amava parlare di sé e dei traguardi raggiunti. Intendeva il suo sport come una filosofia di vita.
Mi chiedevano in molti quando andavo lassù, il più in alto possibile -e da terra il mio aliante diventava un punto bianco e luminoso, quasi una stella- che cosa provavo dentro di me. Volevano sapere che cosa pensassi, così lontana dal mondo, e cosa cercassi o volessi lasciarmi alle spalle. Sono domande che si fanno, lo sappiamo bene noi che voliamo, a tutti quelli che non hanno paura di salire in cielo tenendo tra le mani, con i comandi della macchina, il proprio destino.
All’inizio della mia avventura di navigatrice, nelle prime scorribande solitarie senza l’assistenza di chi mi aveva fatto scuola, mi restava poco tempo per interrogarmi: cercavo di non sgarrare, di seguire minuziosamente le istruzioni che mi erano state impartite, di non dimenticare le fondamentali regole di prudenza. E avevo anche troppo da stupirmi per i paesaggi impensabili che mi si aprivano improvvisamente sotto gli occhi, per quelle bevute di nuvole che avvolgevano il mio aliante, per le spirali di vento che lo facevano girare, avvitandolo su sé stesso come un giocattolo felice e ubriaco. C’era da competere, mi accorsi ben presto, anche con le aquile. Chiedevano rispetto dei loro spazi, nient’altro, e, dunque, bisognava anche lì apprendere le regole. Nel tempo ho imparato a meravigliarmi meno di tutti questi prodigi della natura che, a certe altezze, sono la norma. Ma il godimento è rimasto, le sorprese non sono mai mancate, nel bene e nel male, nonostante la preparazione dei voli a tavolino: soprattutto via via che iniziavo a competere. E l’agonismo prendeva il posto della tranquilla passeggiata tra le nuvole e i cieli non erano più solo quelli sopra la mia terra, ma diventavano i cieli del mondo, con gli alterni umori delle diverse latitudini.
Quelle scorribande lassù, in solitaria ma anche in compagnia, divennero per me una necessità di vita. Ero partita in sordina, i primi voli timidi con gli amici e con mio marito, poi piano piano la confidenza e la conoscenza dei miei mezzi mi avevano convinta ad affidarmi senza timore alle ali bianche e silenziose del mio aliante. Entravo sempre più in sintonia con quella macchina che non aveva motore, l’unico congegno meccanico lassù pareva essere quello del mio cuore, che sentivo battere quando non proprio tutto era sotto controllo. Anche la geografia sotto di me, ma potrei dire sotto di noi, del mio aliante e mia, cambiò nel tempo, come ho già accennato. All’inizio, quando salivo in cielo dall’aeroporto di Calcinate, che avevo visto costruire giorno per giorno, scorgevo il perimetro del grande giardino della mia casa sul colle di San Pedrino. Vedevo il bel campanile del Bernascone e l’intero specchio del lago di Varese. I riflessi delle nuvole sull’acqua, il verde molle e cangiante lungo le rive. I campi coltivati a granturco e le corone delle montagne intorno, bianche di neve. Mi pareva che, allungando le mani sotto di me, avrei quasi potuto raccogliere e contenere nel palmo la mia casa, il campanile, lo specchio del lago: m’immaginavo quel pugno colmo di cose care, con dentro anche le persone che amavo, la mia famiglia, gli amici, i conoscenti più stimati. Mi accorgevo, e forse avevo dovuto andare lassù per capirlo, quante cose preziose potevano starsene vicine, sotto uno stesso tetto di cielo, in uno spazio che agli occhi dell’universo è solo un fazzoletto. Il fatto strano è che, mentre le cose care apparivano microscopiche ma proprio per questo più avvicinabili e prendibili, più mie, le cose brutte, quelle che non avevano contorni definiti, ma immaginavo grigie, forse nascoste sotto la superficie del lago, o forse mimetizzate all’ombra delle case o nel pulviscolo delle strade, mi si manifestavano da lì nella loro insignificanza, abbandonate all’inevitabile destino di negatività, avviate a perdersi, se non addirittura a purificarsi, nel grande silenzio riparatore che girava attorno al mio abitacolo trasparente. Non percepivo da là il gran baccano del mondo, certe parole inutili, gli strilli sopra le righe di chi ama tenere la voce più alta degli altri. Non mi arrivavano neppure i gemiti di chi piangeva o soffriva, lo sapevo bene, ma mi accorgevo in quei momenti che ancora meno in terra mi sarebbe riuscito di ascoltarli, coperti come sono dai rumori quotidiani. Lassù avevo almeno il tempo per dedicare a quelle voci una preghiera tutta mia e per chiedere il perdono che ogni giorno dovremmo tutti domandare per le nostre dimenticanze. Così ho capito che non avrei più potuto vivere senza volare. La nuova dimensione del mio esistere, una volta provata, non poteva che essere questa. Era successo anche a mio marito, col quale avevo imparato a rivaleggiare, era successo a tutti quelli che correvano là in alto, come me. Era successo e continuava a succedere. Qualcuno degli amici, moderno Icaro, aveva scontato la necessità del cielo pagando con la vita. Anche quello poteva capitare, lo sapevo, lo sapevamo, e naturalmente continuava a capitare. Io prendevo ogni precauzione, chi mi conosce sa della mia scrupolosità, della precisione di quando preparavo a tavolino le competizioni che mi portavano, da sola o in coppia con altre navigatrici, in giro per il mondo. Lo facevo per me, ma soprattutto per la mia famiglia che mi aspettava a casa. Mi dispiacevo per quel batticuore che davo loro, per gli sconfinamenti da cielo a cielo, che mi conducevano lontano, ma non potevo ingannare loro e me sulla possibilità di rinunciare a volare, sarebbe stato come chiedermi di rinunciare a vivere.
Non è stato un caso che l’addio al volo abbia coinciso con la mia malattia.
Non mi sono arrabbiata col cielo per questa punizione inflittami un giorno sul filo del traguardo di una vita.
Sapevo che il momento sarebbe comunque arrivato e ho accettato la malattia che mi ha quasi immobilizzata su di una sedia. Forse mi è stata imposta per evitarmi che dovessi essere io a decidere di dire basta.
Ma non ho perso la mia vista di navigatrice, e conservo lo sguardo d’aquila sul mondo. Ripenso ai miei tanti anni di volo, a quel lungo colloquio col cielo che non avrei mai voluto interrompere e continuo a immaginare dall’alto il mio fazzoletto di terra varesina: con la casa, il lago, il campanile. Con le strade che, assieme al profumo del vento, portano dalla collina i peccati della mia piccola città.
Intanto mi preparo per l’ultima partenza, segno sulla carta i conti da far quadrare. Gli amici mi dileggiano per questa deformazione professionale, da pilota. Ma io sono abituata a fare i calcoli esatti e mi permetto a mia volta dell’ironia: quando salirò di nuovo, non saranno ammessi i fuori campo.
Immagino che si tratterà di un viaggio tutto particolare: sarà un volo senza fine in un cielo pieno di vento. Potrò di nuovo agganciare l’orlo delle nuvole che s’innalzano in bianche colonne e covare per sempre con lo sguardo il mio mondo, silenzioso e raccolto. Laggiù.
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