A un giovane, bravo amico che si presentava candidato alle recenti elezioni amministrative e al quale deploravo l’eccessiva e dannosa abbondanza di propaganda fatta di slogans, di interventi sui social network, di banchetti che esponevano non tanto ragioni, ma promesse, non tanto idee, ma torti da riparare, non ragioni, ma urla, egli mi rispondeva che in politica ci vogliono due cose: “fare” e “comunicare”.
Da parte mia, al contrario, giudico che le promesse, le parole urlate, i piccoli dispetti diventano frastuono e impediscono di discernere il vero dal falso. Nella grave crisi di partecipazione democratica odierna, i partiti dovrebbero accompagnare i cittadini a capire e a giudicare il rapporto tra i due elementi,mentre sembra che la tattica uccida le speranze degli elettori.
Poiché stimo questo giovane, gli ho promesso che, conclusasi la campagna elettorale, gli avrei serenamente esposto i miei dubbi sulle sue affermazioni. Ed è ciò che tenterò di fare.
Chi ha partecipato alle primarie, chi ha girato tra la gente nei quartieri per comprendere le attese della gente, chi si è adoperato al ballottaggio per convergere i voti su un candidato sindaco serio, competente, mite anche nel confrontarsi con gli avversari sa che non basterà una campagna elettorale per creare delle convinzioni: c’è tutto un lavorio costante e profondo per fare della città un luogo dove si ristabilisca il dialogo, partendo dai piccoli gruppi di sostenitori di questo o di quel candidato, per elevare la politica.
Al contrario, subito dopo la grande festa seguita alla vittoria di Galimberti, i cittadini hanno assistito al contrasto tra due fazioni divise sul nome del candidato a presidente del consiglio comunale.
Gli elettori sono rimasti sbigottiti perché “la comunicazione” che sovrabbondava nella fase pre-elettorale si era improvvisamente smorzata. Molti di essi si sono dichiarati sdegnati perché usati solo per sostenere una candidatura. Sono rinati i conflitti che potevano essere incanalati in modo da non distruggere la città come un cancro: in un momento in cui si chiedeva trasparenza, è rinata l’oscurità dei tatticismi; quando si era certi che la vittoria di Galimberti avrebbe portato serenità, sono rinati i fanatismi presuntuosi e gli isterismi faziosi.
Si è avuta allora la dimostrazione che gli ideali “comunicati” sui mass media, dai volantini, dai messaggi postati sui social si fossero confusi con gli interessi e che le persone fossero state strumentalizzate da comizianti di retorica o da giocolieri che hanno fatto del voto un derby da stadio.
Dispiace che i partiti ( per quel che valgono!) non abbiano capito che più che “comunicazione” oggi la politica ha bisogno di un’etica della convinzione e della responsabilità: le donne e gli uomini che hanno votato Galimberti hanno visto in lui non il più forte e saggio dei candidati, ma il sindaco che sarebbe diventato forte e saggio, capace di amministrare una città con polso fermo e con la semplicità dei miti perché aiutato da persone valide.
Era questo il momento per spiegare ai cittadini, non da parte del nuovo sindaco, bensì da parte del suo partito, quali fossero le reali motivazioni per le quali alla candidata, che aveva ottenuto il maggior numero di consensi, non poteva essere assegnato un assessorato o la presidenza del consiglio comunale.
Dirlo con franchezza, esporre la strategia che aveva portato Galimberti all’elezione. Si è preferito, invece, ubbidire ai diktat del partito che voleva premiare un altro candidato sindaco che, a tre giorni dal voto, aveva invitato i suoi elettori a dirottare i voti su Galimberti, contribuendo così ad innescare una catena di rivalse in grado di distruggere l’armonia che si era creata. Sia ben chiaro: questa è democrazia, ma non è è la partecipazione che gli elettori chiedono. Non si può storpiare, mistificare la verità! La verità è più autentica della scoperta dell’ultima ora.
I veri “comunicatori” oggi in politica sono coloro che non cercano l’influenza degli elettori o l’ammirazione dei media, ma coloro che testimoniano con la loro azione l’interesse comune, che stanno bene con se stessi e hanno il coraggio di agire di conseguenza.
Certo, in una società della comunicazione servono i mezzi per trasmettere programmi, progetti, idee. Dirò di più, capovolgendo il celebre assioma di Machiavelli, “oggi sono i mezzi che devono giustificare il fine”, ma non devono rubare il pensiero, la capacità critica, l’intimità e la concentrazione. Non devono tutto omologare, tutto puntare sull’informazione che molta gente non sa elaborare. Coloro che durante la campagna elettorale si sono visti eccitati, stimolati, travolti da passioni per questo o quel candidato, e non per un ideale, possono diventare degli emeriti furfanti che mentono anche quando dormono.
Se in politica si deve “comunicare” il “fare”, è molto più importante e primario “pensare”, cioè creare collegialmente un progetto, indicare le priorità, i tempi e non nascondere le difficoltà che si possono incontrare. Il grande male della politica d’oggi, e non solo in Italia, è quello di aver ridotto il tutto a pura prassi: vinciamo le elezioni e poi si vedrà. Il successo elettorale sembra divenire il fine. Così operando, la politica, e quindi anche l’amministrazione di una città, diviene povera di senso, scarsa di significato. Come nei confronti di inammissibili logiche spartitorie vi è spazio per la libertà di coscienza, così il criterio di fedeltà al partito, o alla formazione a cui si fa riferimento, non può costituire un “corpo” separato dalla società civile: prima di tutto viene la persona di cui non ci si serve, ma la si serve.
Auguro al mio giovane amico, a cui si aprono i vasti orizzonti del servizio alla città, di “pensare politicamente”, quindi di “fare” e, solo alla fine di “comunicare” quello che è stato realizzato, in maniera tale che il cittadino possa valutare con serietà coraggiosa l’impegno di un’amministrazione. In questo modo contribuirà a creare una partecipazione che deve svilupparsi per combattere l’ignoranza e il disinteresse per la cosa pubblica.
Ci siano permesse due annotazioni marginali, ma non meno significanti. I sindaci, sia delle grandi città come dei piccoli comuni, oggi sono dei veri eroi: i trasferimenti dallo stato sono notevolmente diminuiti, i tributi legati all’Irpef delle persone salariate si sono assottigliati a causa della disoccupazione, le attività produttive chiudono e non versano nulla nella casse comunali. Ciò nonostante, i sindaci devono far funzionare i servizi alle persone, provvedere ai lavori pubblici urgenti, pagare stipendi, rate di mutui ecc. Il loro è un vero strazio. Come mai, inversamente a quanto si dovrebbe pensare, sono così copiosi i candidati a sindaco o a assessori o a consiglieri? Non è forse perchè “la politica è l’unica professione per la quale non si considera necessaria nessuna preparazione speciale?” (Robert L. Stevenson).
Un’ultima riflessione. Se non andiamo errati, è la prima volta che sui banchi del salone estense non siedono consiglieri di emanazione diretta di un noto movimento ecclesiale. È terminata l’era dei cattolici impegnati in politica? Non lo credo. I cattolici italiani non sono insignificanti in politica. Hanno ancora molti obblighi a cui rispondere, soprattutto nel campo sociale. Riconosceremo questi seguaci di Cristo non dalla loro fedeltà al partito, ma dalla loro coerenza con i valori evangelicamente cristiani.
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