Il caso di Ilaria Capua, la ricercatrice accusata, due anni fa, delle più turpi colpe – traffico di virus con possibile o probabile diffusione di epidemie –, e poi scagionata “perché il fatto non sussiste” al termine di un’inchiesta non proprio lineare, deve indurre a qualche riflessione.
Della sua incredibile vicenda ha parlato anche il Corriere della Sera in queste ultime settimane con un paio di articoli di cui uno a firma di Paolo Mieli, già direttore del giornale e poi direttore editoriale della Rizzoli. Per dire che alla ricercatrice sbattuta in prima pagina come “mostro” al tempo dell’avvio dell’inchiesta oggi non è stata chiesta nessuna scusa, o poche. Né dai giornalisti, finora, che probabilmente furono indirizzati dai magistrati, né dai magistrati stessi che giustamente o ingiustamente – ingiustamente a quanto è infine risultato – la misero in croce.
Nel frattempo Ilaria Capua si è trasferita negli Usa, in Florida, dove il suo lavoro di ricercatrice è molto apprezzato. Della sua vicenda italiana Ilaria ha detto: mi sento come se mi avessero gettato addosso dell’acido.
Nel suo articolo Paolo Mieli, che ha citato una precedente intervista a Ilaria Capua del giornalista Gian Antonio Stella, colpiscono soprattutto alcune frasi: “Lei – domandava Stella alla Capua – ha visto il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo che avviò l’inchiesta?”. Risposta: “Mai…”. “Ma in questi due anni?” “Mai” “Altri magistrati, forse?” “Mai” “Quindi non è mi stata interrogata” “Mai”.
Ora, nonostante tutto, si fa ancora fatica ad affermare che da una storia così si debba necessariamente arrivare a un accertamento di responsabilità dei magistrati che hanno avuto in cura l’inchiesta e magari a quantificare un risarcimento del danno, da parte dello stato o chi altro, ma qualcosa si dovrà pur dire o fare.
In quanto ai giornali, dove abbiamo trascorso lavorando gran parte della nostra vita, sappiamo bene che non sempre ci si muove tenendo conto del rispetto della persona; della notizia, forse, ma non siamo sicuri neanche di questo. E che spesso, quasi sempre, le notizie negative vanno con grande risalto in prima pagina e le positive, quando diventano tali, passano quasi di nascosto a pagina 12 o 13 con un titolo di taglio medio o basso.
Ma qui il nostro Ordine, altrimenti sollecito e pronto, dovrebbe pur intervenire. Ricordiamo, per esempio, casi di colleghi sbattuti fuori dal mestiere (alcuni temporaneamente altri per sempre) per avere a suo tempo collaborato con i cosiddetti “servizi”, giocando in pratica su due tavoli: quello del lavoro giornalistico, unicamente a favore del proprio giornale e del lettore, e quello di un presunto – ma estraneo – interesse di una parte o dello stato. Facciamo un paio di nomi: Giorgio Zicari – noi eravamo giovani cronisti lui era un inviato di punta del Corriere – e più di recente Renato Farina. La nostra deontologia, giustamente, richiede che il giornalista svolga sempre un’azione “terza”, affidando al lettore notizie verificate, complete, senza dunque tradirne la fiducia.
Ci si chiede se alcuni colleghi che talvolta si fanno portavoce, consapevolmente o inconsapevolmente, dell’opera di magistrati inquirenti – che nell’ordinamento del nostro processo non rappresentano una verità assoluta, ancorché giudiziaria, ma una parte in causa, quella dell’accusa da dimostrare se mai nel processo –, non debbano in qualche modo chiarire questa posizione. Se non immediatamente, come si dovrebbe, almeno obbligatoriamente al termine dell’inchiesta, come nel caso di Ilaria Capua, qualora l’accusato venga direttamente scagionato senza nemmeno andare a processo. Con le stesse evidenze giornalistiche di quando l’accusa mosse i primi passi, poi rivelatisi fasulli. Cioè: non che le regole manchino, perché sono bene scritte, ma quasi mai – ne siamo tutti a conoscenza e giriamo sempre gli occhi da un’altra parte – vengono applicate.
Il caso di Ilaria Capua, concludeva Paolo Mieli nel suo articolo, che ci sentiamo di sottoscrivere, è eclatante per la notorietà del personaggio. Ci si domanda quanti altri personaggi esistano, meno noti e conosciuti, che abbiano dovuto pagare o paghino tutt’oggi per questi ingiusti comportamenti.
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