Rappresenta la “normalità” di una madre, che affronta insieme il lavoro, la guerra, la malattia e la morte dei figli con quella forza che le donne coltivano dentro di sé in nome dell’amore. La storia di Dorina Luini (1910-1995), ricostruita sul racconto fatto dalla figlia Anna Maria, è anche lo spaccato di una realtà sociale viva e varia, quella della Valle Olona.
Il profumo della mia infanzia è quello del pane buono di mio padre, un profumo che giungeva in negozio dal forno e inondava la strada e le stanze della nostra casa. A volte vi si mischiavano altri aromi. Erano gli odori delle diverse cucine -delle emigrate venete, toscane, mantovane, calabresi- che si confondevano e si alternavano in una piacevole girandola di sensazioni olfattive. Molte donne, non disponendo di un forno casalingo, portavano a cuocere da noi le loro pietanze e così erano anche i dialetti a confondersi in quei pochi metri quadri di bottega. Il nostro negozio, come capii a mano a mano che mi facevo grande, era un crogiolo di incontri, un crocevia di persone, di vite, di destini diversi: era un campionario della Valle Olona, terra di industria e di emigrazione, di contrasti, ma anche di grande solidarietà e rispetto.
Amavamo tutti quei grumi di case attaccati alla valle, sorti a ridosso delle fabbriche lungo il corso dell’Olona, di cui temevamo gli umori delle piene. I colori dell’inverno erano grigi, i dossi del terreno brulli e un po’ aspri per noi bambini, ma d’estate i prati fiorivano di papaveri e fiordalisi.
La vita della mia famiglia è trascorsa, e ancora trascorre, come l’Olona nel suo letto, tra quelle vecchie mura dove avevamo casa e negozio, i nostri affetti e il lavoro. Ad accompagnare le giornate dei residenti era l’urlo delle sirene delle fabbriche, che chiamavano al lavoro. A farci compagnia la notte, anche la notte di Natale, era la luce gialla della Cartiera.
Mia madre e mio padre, appena sposati, avevano investito il loro capitale di lavoro e di affetto in quella valle e in quei muri che s’affacciavano sulla strada principale della Valle Olona, diventando per tutti la Dorina e il Mario.
La mamma, figlia di agricoltori di Galliate Lombardo, era cresciuta nella campagna lungo il lago. Ma appena ragazza aveva voluto provare a lavorare in fabbrica: ad Azzate, dove aveva conosciuto mio padre, e a Somma Lombardo. Partiva all’inizio della settimana e rientrava il sabato. Le piaceva il lavoro in tessitura e ancora di più, la sera, l’attività di laboratorio con le maestre. Seguendo i loro insegnamenti, punto dopo punto, s’era ricamata tutto il corredo.
Passare dal lago al corso dell’Olona l’era costato un po’. Lo si capiva perché nei racconti che faceva ai figli era rimasta la nostalgia: dell’odore del fieno e dei prati, del calore della stalla la sera, delle preghiere di maggio nella chiesetta della Madonnina del Lago, dei proverbi dei suoi genitori, in dialetto, che raccontavano l’alternarsi delle stagioni. Appena poteva, la domenica, se il tempo lo permetteva, tornava alla sua campagna con le due figlie maggiori. Le bastava che fosse sciolta la prima neve per avventurarsi nei prati, quando spuntavano le prime violette. Ne facevano mazzetti da portare alla Madonna. Quei gentili omaggi floreali si ripetevano appena facevano capolino tra l’erba i cucuritt.
Non le restava però troppo tempo per abbandonarsi agli svaghi e ai ricordi: c’erano la famiglia, la casa, il negozio. C’era da governare tutto quel piccolo mondo imbastito di operosità, sul quale le toccava ogni mattina alzare la saracinesca. E al più presto. Perché, prima d’entrare in fabbrica, passavano da lei gli operai della Cartiera e della Conciaria. Passavano anche le mamme coi bambini sul sellino della bicicletta: entravano infreddolite, a scaldarsi e a prendere il pane caldo, appena sfornato.
All’inizio del 1940 nacque il terzo figlio: la Dorina era rimasta in negozio, a servire al banco, fin dopo il mezzogiorno. Il sospirato maschio arrivò proprio nell’orario di chiusura. Quando nel pomeriggio mio padre alzò di nuovo la saracinesca c’era già il fiocco azzurro sulla porta. Dopo due femmine, non aveva potuto fare a meno di comunicare la sua gioia a tutti: anche perché quel maschio di quasi quattro chili s’era ostinato a venire al mondo per i piedi. Mia madre si fermò non più di cinque o sei giorni, poi riprese la sua solita attività senza risparmiarsi, un occhio alla bottega e uno, di riguardo, alla famiglia. Forse, per tutto quel lavoro, non riuscì ad allattare a lungo: papà un giorno dovette correre con la bicicletta in città a prendere il latte in polvere.
L’anno successivo, la voce delle sirene cominciò a suonare diversa. Come se l’inizio della giornata avesse perso il sapore allegro del quotidiano ritorno alla vita: pareva al contrario il segnale di un risveglio temuto, di nuove difficoltà, di un vivere in cui qualunque cosa sarebbe potuta capitare.
La valle in quei tempi sembrava rivelare, più che le fioriture primaverili e l’erba dell’estate, i contorni grigi delle sue ciminiere e i bordi scuri del letto dell’Olona. Erano ormai quelli i colori del mondo. Divennero anche i colori del piccolo mondo della mia famiglia, e di tutte le famiglie della Valle dell’Olona, quando gli uomini cominciarono a partire per la guerra.
Partì anche mio padre. Il suo prediletto micin, il micio dal pelo rosso che passava le giornate nel cortile e lo seguiva ovunque andasse, lo accompagnò fin sull’uscio di casa. Poi s’acquattò sotto il ciliegio, s’impuntò lì, floscio come un cencio, ostinato nella sua macchia fulva di dolore, e non volle più muoversi. Morì, dopo pochi giorni, senza aver toccato cibo.
Segna da lì, dalla morte del micin, lo spartiacque della vita della mia famiglia. Mia madre, come tutte le altre donne rimasta a combattere sul fronte domestico, si arma di coraggio. E gliene occorre non poco: c’è da dirigere il negozio, comandare gli operai, tenere i conti, controllare i buoni per la farina, servire e accontentare i clienti, aiutare se possibile i meno fortunati e, pur nelle difficoltà, mantenere alta la qualità del lavoro. Tanto più che la concorrenza interessata della vicina Cooperativa cerca di metterle i bastoni tra le ruote e di farle chiudere il prestino. Lei tiene duro e la spunta. Lavora di giorno e di notte, con l’aiuto dei genitori e delle due giovani figlie, protegge il suo negozio contro ogni prepotenza.
Un giorno chiude il cancello, appena in tempo, sotto il naso di una pattuglia di tedeschi a caccia di uomini.
A tutto questo s’assomma la necessità di provvedere ai bisogni più elementari della famiglia. Come le altre donne negli anni della guerra, la Dorina s’inventa soluzioni fantasiose. Per fabbricare le scarpe al figlio, disfa la sua borsa più bella, una borsetta blu ricamata di fiori: quelle scarpette, cucite col filo della necessità e dell’affetto, le sembrano più belle di quelle del calzolaio.
Ma ci sono situazioni che neanche la migliore delle madri può risolvere.
La piccola Anna Maria si ammala. Neppure le corse in Svizzera, per la penicillina, servono a qualche cosa: la piaga che s’è aperta sulla gamba della bambina, non guarisce. E la malattia si trascina senza soluzione.
La guerra finalmente finì. Gli uomini, non tutti, cominciano a tornare. Tornò anche mio padre, pallido e smagrito. Fu mia sorella Olga a scorgerlo per prima, il cappello di bersagliere in testa, la valigia coi bordi scoloriti in una mano.
Papà non sostò sull’uscio. Volò in casa.
La guerra aveva distrutto tanto: ma la nostra casa era rimasta in piedi, con il suo intatto tesoro d’amore e di certezza. La vita poteva riprendere.
E invece, nel ’47, mancò mia sorella. Mia madre la vestì col suo abito bianco di sposa e non parlò troppo di quella morte. Si chiuse nel dolore e continuò a lavorare più di prima, cercando di tenere la testa impegnata. Il dolore vero, ci faceva capire, è quello dentro, che non deve convincere gli altri, ma sta nascosto, come il cuore, sotto i panni di ogni giorno. La Dorina lo celava dietro quel grembiule che sapeva di pane. La sera, tolto il grembiule, senza farsi vedere dall’altra figlia, piegava la testa sul tavolo e lasciava scorrere in silenzio le lacrime. E se la Olga la scopriva, le diceva ch’era per la stanchezza: il suo coraggio e la sua volontà non dovevano tradire le attese della famiglia che continuava, smarrita, ad avere bisogno di lei.
Sapeva del resto di non essere la sola a soffrire: in bottega le disgrazie passavano per le bocche delle donne. Le confessioni di quei dolori che mordevano l’anima giravano a voce bassa, uscivano accorate e, insieme, consolatorie.
Io nacqui nel ’48. Ebbi il nome della sorella morta. Non ho mai guardato con sospetto a quell’omonimia che mi ritornava da una vita, a me tanto prossima, che pure non avevo conosciuto.
Ho sempre pensato che la presenza di mia sorella mi abbia protetta, come un’ala d’amore che s’allunga su di me. Forse è stato pensando a lei che ho scelto di essere medico: era la voglia inconscia di trovare una spiegazione alla sua inspiegabile morte. La risposta non è venuta. E oggi mi sembra giusto non cercarla.
Abbiamo lenito quella ferita con la mia professione, nella cura di tanti bambini. E abbiamo dovuto rinunciare a darci risposta di fronte a un’altra terribile disgrazia. Se ne andò a poco più di vent’anni, per un incidente stradale, anche mio fratello Giancarlo. Di nuovo mia madre chinò il capo, di nuovo si caricò di quel dolore, che rinnovava e riacutizzava il primo, come ci si carica di una croce.
Fin dagli anni Cinquanta, la Dorina e il Mario avevano ricominciato a condividere il lavoro e, con esso, quel nuovo mondo della valle fatto di ripresa economica, di emigrazione, di rigurgiti paesani da guerra fredda, tra bandiere rosse e campanile, che aveva spesso risvolti comici, alla Guareschi. Nel negozio passavano di nuovo storie, casi umani, tipi particolari. Mia madre cercava di continuare a vendere quel suo pane ch’era sempre stato accompagnato da pietà e attenzione per gli altri. Dava risposte consolatorie alle mogli dubbiose, offriva pagnotte calde a qualche poveretto, consigliava, o sconsigliava gli indecisi. Le capitò di fermare un giorno il coltello di un marito un po’ eccitato, che minacciava di ammazzare la sua donna.
Nel frattempo le case crescevano, le macchine pure. In compenso sparivano le biciclette, i prati e un po’ anche le buone maniere.
Finché, un giorno, la Dorina e il Mario lasciarono la loro bottega, senza rimpianti, convinti ch’era ora di godersi un po’ di riposo.
Della nostra famiglia siamo rimaste in due sorelle. Abbiamo ancora casa lì e il mio studio di pediatra confina coi muri dov’era una volta il negozio.
Le sirene degli stabilimenti ormai non chiamano più. Anche la luce gialla della Sterzi s’è spenta da anni. Molte facce sono cambiate e al posto delle biciclette corrono le macchine. Non vedo, all’inizio dell’estate, le fioriture di papaveri e fiordalisi della mia infanzia. E le fabbriche lungo l’Olona sono scatole morte dagli occhi vuoti.
Ma continuo a sentire nell’aria il profumo buono del pane.
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