Giusto un anno fa, l’11 luglio 2015, una lunga ombra di un nuovo “ipotetico” doping si allungava sul Tour de France, il cui simbolo del primato – la maglia gialla – ben si attaglia alla vicende in chiaroscuro che ne hanno scandito gli ultimi diciotto anni. Nel ‘98 esplose infatti il caso Festina con il blitz della Gendarmerie che rivelò al mondo il ciclismo di Frankestein fatto di prodotti anfetaminici sempre più sofisticati, ormoni della crescita, auto emotrasfusioni( lecite fino agli anni novanta), cortisonici, testosterone, fino all’approdo all’epoproietina, un ormone che nelle sue diverse declinazioni moltiplicherebbe i globuli rossi del sangue migliorando nettamente le prestazioni.
Nelle sostanze, giova ricordarlo, inciamparono con tanti altri, campioni come Pantani, Virenque, Zulle, Ullrich, Riis, Basso e Amstrong, il “fenomeno” australiano che ha visto cancellati, a carriera ormai chiusa, i sette Tour vinti. Una vicenda che ha messo in luce anche le colpevoli opacità, se non addirittura complicità dell’ UCI ( Unione ciclistica internazionale). Opacità che sembrano riemergere stando alle rivelazioni di qualche giorno fa di Stade 2 e del Corriere della Sera. Secondo i due media nella carovana della corsa si aggirerebbero, tollerati se non proprio protetti, i mercanti di un nuovo doping, tecnologico questa volta,fatto di minuscoli motorini inseriti nei telai delle bici e capaci di alleggerire le fatiche di un 20/30 per cento soprattutto nelle cronometro, nelle grandi tappe di montagna, nelle classiche monumento di primavera e autunno quasi sempre corse a medie orarie da capogiro, tali da giustificare più di un sospetto.
A ben guardare i marchingegni altro non sarebbero se non un’evoluzione, raffinatissima e ovviamente costosissima, delle biciclette assistite che facilitano il pedalare dei tanti comuni mortali che hanno con coraggio scelto di lasciare a casa l’auto per muoversi più agilmente nel traffico delle città. Un aggeggio meritorio soprattutto in città come Varese dove le strade sono un’ autentica via crucis di salite e salitelle. Dunque un doping benigno e propizio a livello amatoriale non altrettanto a livello agonistico dove sono in gioco, con meriti sportivi e palmarés individuali, enormi interessi economici. Non nuoce all’integrità fisica e psichica degli atleti come quello farmacologico, ma se non viene svelato rimescola le carte in tavola, altera ordini d’arrivo e classifiche, mette in forse l’essenza stessa del ciclismo agonistico fondato sulla reciproca lealtà.
Per questa ragione accanto a quelli tradizionali riservati all’individuazione di sostanze farmaceutiche, l’UCI e la società organizzatrice del Tour effettuano giornalmente una quantità industriale di controlli sui telai delle bici avvalendosi di telecamere termiche e di particolari tablet rivelatori. Nel 2015 ne sono stati fatti 2100, quest’anno il conto potrebbe ulteriormente salire. Tuttavia non vi è certezza di scoprire i bari del pedale visto che sarebbe in circolazione una nuova tipologia di assistenza alla pedalata non rilevabile ai controlli. Insomma la corsa tra doping e antidoping che va avanti dal primo dopoguerra sta vivendo una nuova fase, un’altra tappa di una rincorsa senza fine tra guardie e ladri. Dopo aver esplorato i labirinti della medicina e delle biologia mettendo talvolta a rischio l’integrità fisica degli stessi atleti, oggi la partita la si gioca invece sulle tecnologie. Per ora nella rete è caduto solo qualche pesce piccolo ma la caccia è solo all’inizio.
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