Un grande alpinista cresciuto in località Cariola di Casalzuigno, nella sua palestra preferita, quella Valcuvia che gli ha insegnato l’arte della sopravvivenza. Nella sua vita Oliviero Bellinzani ha scalato millecinquecento vette: ventiquattro quattromila e centinaia di vie conquistate con una sola gamba. È stato per due volte campione italiano di paraclimbing e si è classificato al terzo posto ai primi campionati mondiali che si sono tenuti ad Arco di Trento.
La prima volta che ho incontrato Oliviero è stato a Casalzuigno, a casa di Sandro Bardelli e di Patrizia Galparoli. Abbiamo parlato a lungo di sport e di alpinismo. Una serata interessante, con un interlocutore molto attrezzato sul piano della cultura sportiva, ottimo comunicatore e dotato di quella fine psicologia introspettiva che gli consentiva di sottoporre a giudizio l’apologia convenzionale, quella che costruisce le sue verità su varie forme di commiserazione e di pietismo. Oliviero era l’opposto, uno che aveva fatto della sua disabilità un motivo in più per dimostrare che l’uomo non è mai schiavo, neppure quando qualcuno vorrebbe farlo apparire tale. Il suo alpinismo ne era la conferma, metteva sotto i riflettori un mondo di categorie e di stereotipi, di invenzioni e convenienze che per lunghissimi anni hanno impedito all’umanità di essere se stessa sempre, nella bella e nella cattiva sorte.
Mi piaceva quel suo saper cogliere l’indefinito, quella parte della conoscenza che incontra spesso l’indifferenza di chi crede di aver decodificato il mondo con i suoi vizi e le sue virtù. Forse avevamo in comune una prima giovinezza vissuta in casa di una natura un po’ magica e misteriosa che sapeva accendere la curiosità, la voglia di scoprire, di amare, di svelare lasciando spazio a un’ immaginazione alimentata dagli eroi dei fumetti e dei libri che qualcuno aveva sapientemente messo sul nostro cammino.
Quella sera mi parlò a lungo della località Cariola, della bellezza di quei luoghi dove aveva imparato l’arte della sopravvivenza fatta di accorgimenti, di esperienze, di opportunità, di passaggi obbligati. Mi parlava di Long John e di Robin Hood, come se in lui ci fosse qualcosa di fortemente legato al mito degli eroi della foresta di Sherwood.
“Il gioco e il divertimento mi hanno formato. Ho costruito giorno per giorno la mia personalità, che mi sarebbe stata di grande aiuto in seguito. Ancora oggi vivo con la voglia di affidarmi alla bellezza dell’ambiente che mi circonda”. Oliviero portava nel cuore i boschi della Valcuvia, gli alberi su cui si arrampicava, le prodezze con gli amici sul fiume Boesio, la pesca con la mitica “forchetta”, l’immagine di una nonna attenta e premurosa. Alternava in sequenza le ragioni del cuore e quelle del sentimento, alimentando il ricordo di una Brenta accogliente dove trascorreva l’estate dai nonni. Era già innamorato allora della montagna.
Mi parlò a lungo di Walter Bonatti, il ragno delle Dolomiti, l’alpinista che incarnava lo sport che avrebbe voluto praticare da grande e della sua prima scuola. “La prima scuola che ho frequentato è stata la mia capacità animalesca di stare nell’ambiente naturale, quella che avevo maturato fin da ragazzo in giro per i boschi. La capacità di muovermi nella natura in piena libertà, l’ho traslata pari pari a quella di muovermi nella natura con le stampelle”. Nel suo passato c’era già il suo presente con gl’imprevisti della sorte. Mai come in quel colloquio ho percepito l’incongruenza di un destino che sembrava già scritto molto tempo prima. Oliviero Bellinzani è stato un grande sportivo. Le nostre interviste son state all’insegna della funzione educativa dello sport, della sua capacità di promuovere un’identità cosciente, anche nella sua fase adolescenziale, quella in cui te lo trovi addosso senza che qualcuno te lo abbia indicato. Fiero e orgoglioso, mi parlava senza falsi pudori della disabilità, mettendola a nudo, come se nella maggior parte dei casi si trattasse dell’ennesimo alibi per giustificare una sconfitta. “Il mondo della disabilità vive una situazione di subalternità culturale e psicologica che lo pone in una apparente situazione di inferiorità, mentre in realtà non compromette nulla, anzi diventa una marcia in più”.
Metteva in campo una rielaborazione seria e profonda della sua condizione, senza mai piangersi addosso, con l’acume di chi ha le carte in regola per sostenere una tesi convinta. C’era nella sua quasi quotidiana arrampicata in parete la certezza di non lasciare mai nulla alla presunzione o alla sottovalutazione, era pignolo e attento a non perdere di vista nulla che potesse mettere in difficoltà l’incontro con la montagna. “ Quando salgo la montagna è perché la sento mia, so che a quel punto è nelle mie possibilità. E’ anche vero che quando sei in azione può accadere di tutto. Ho sempre mantenuto intatto il mio patrimonio emotivo e questo mi ha aiutato tantissimo. Con o senza le stampelle non fa un grinza, l’importante è mantenere una condizione ideale adeguata. Molti pensano che sui tempi di percorrenza il disabile sia da meno, ma non è così”. Mi raccontava dei suoi sogni giovanili, della sua voglia matta di praticare sport, del piacere che provava ogni volta che ne assimilava la bellezza. Aveva un eloquio sicuro, frutto di una finissima capacità investigativa.
“È il piacere del movimento, il piacere di ascoltare il tuo corpo che ti parla e ti dice che è contento di quello che stai facendo. Dopo averlo praticato mi sento purificato, è come se avessi buttato fuori tutte le porcherie che portavo dentro. La montagna viene anche usata come “montagna terapia”, proprio perché sollecita l’autostima. Non dico che sia l’unico rimedio, ma costituisce sicuramente un banco di prova che ti impone di tirar fuori il meglio. Ti costringe a vincere tutte quelle forze che impediscono alla volontà di determinarsi, di abbattere le paure, di ritrovare il coraggio e di reagire alle avversità”. Nella passione dell’uomo con le ali c’era lo sport con la sua capacità di far vivere e trasformare: lo sport della bellezza, della vita, del movimento, c’era la volontà indomita di affermare l’energia della condizione umana, pronta a rimettersi in gioco anche dopo l’ineluttabilità di una tragedia.
Nel rapporto intimo con la montagna aveva ritrovato la sua identità, si era riconciliato con quel mondo che lo aveva duramente provato. C’è un passaggio molto significativo di una mia intervista in cui Oliviero affronta il tema scottante del confronto generazionale con la potenzialità didattica di un consumato pedagogista. “Occorre precisare che la mia generazione e quelle passate erano strettamente legate alla natura, si costruivano una cultura del confronto proprio grazie alla scuola di ragazzi più grandi, di genitori e di nonni che vivevano quotidianamente il loro rapporto con l’ambiente. Si imparava a riconoscere i pericoli, a misurarsi con i rischi, a verificare le proprie potenzialità in rapporto alla realtà, insomma l’uomo costruiva una identità cosciente, con modalità del tutto naturali, perché la natura fungeva da maestra e da guida. Oggi i ragazzi non hanno più questo rapporto, anche per un eccesso di protezionismo di cui il mondo adulto è affetto.
Non solo, ma i giovani non vengono guidati ad amare l’ambiente, non ne conoscono l’identità e quindi non ne apprezzano la presenza, che pure potrebbe portare numerosi vantaggi di natura ricreativa, cognitiva, culturale, fisica e mentale. La famiglia non è più quella di una volta, con i nonni che raccontavano le storie e mediavano le vicende umane. La televisione e il motorino hanno preso il posto della scoperta quotidiana che solo l’ambiente può offrire. Molti dei nostri ragazzi non sanno più innamorarsi della bellezza di un torrente, di un albero, di un animale raro del bosco e il bosco non è più quella meravigliosa palestra di vita che è stato in passato. Anche lo stesso impianto scolastico non permette di portare i ragazzi a contatto con la montagna, privandoli di un ulteriore strumento di crescita.
Oggi ho capito una grande cosa, che se io ho un grande sogno, non devo mollare mai”. Oliviero era anche questo, un incontenibile innamorato della bellezza che ricercava nelle sue forme più semplici e nascoste, tra le ali di quel silenzio che legittima e governa la storia dei sentimenti, senza mai perdere quello spirito investigativo e critico che è stato il sale della sua personalità umana e sportiva.
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