Mentre Milano si dimostra sempre più attiva nell’avvicinare all’arte migliaia di visitatori, Varese non ha saputo sfruttare finora le potenzialità di tanto appeal per l‘arte del capoluogo, neppure in occasione di Expo. Ha però la fortuna, che può sempre essere còlta, di poter vantare nella storia del territorio, in passato e anche nell’attualità, figure artistiche di tutto interesse.
Lo dimostrano proprio in questi giorni le apprezzate rassegne dedicate a due artisti che non sono più, eppure continuano a vivere tra noi: Vittorio Tavernari e Albino Reggiori.
Di Tavernari è in corso (fino al 10 luglio) una mostra a Viggiù, curata da Flaminio Gualdoni e Ignazio Campagna, nella bella casa-museo che fu del grande Enrico Butti, ricordato quest’ultimo a Varese anche dal grandioso monumento dedicato ai Caduti, dono dell’artista alla città, inaugurato da Vittorio Emanuele III nel ’23.
Carla Tavernari, insieme con Gualdoni, ha portato a Viggiù, oltre alla sua amorevole e attenta competenza di curatrice della memoria dell’artista, parecchi disegni del padre e alcune opere plastiche. Tra le sculture presentate, tutte di piccole dimensioni e di particolare interesse, tre sono avvicinabili per tematica e per atmosfera ai Cieli, noto ciclo di opere tavernariane che riassume in nuce il senso vero della vasta produzione dell’artista: una ricerca sempre mirata all’ uomo, alla sua grandezza -e piccolezza- di creatura fissata nella solitudine, eppure, vogliamo leggervi noi, mai abbandonata a sé stessa, perché sorretta proprio da quel cielo che regge ogni cosa nella sua invisibile mano. Se i Totem sono per Tavernari il segno di un’arte giovanile solida, virile e possente, seppur svolta in assoluta nitidezza di racconto, i Cieli sono la visione luminosa e sublimata di chi, compiuto il suo lungo cammino, sente dissolversi l’ insignificante corporeità dell’essere nell’etereo fluire. È proprio questo Tavernari “minore” a raccontare al meglio la parabola di un artista che é piaciuto al mondo e che il mondo ha saputo apprezzare assegnandogli premi e spazi di tutto rilievo nei musei internazionali, da Villa Panza di Varese al MoMa di New York.
Significativa questa scelta di un duetto ravvicinato tra il Butti, coi suoi colossali gessi ospitati nella gipsoteca viggiutese, e un Tavernari osservato in opere di piccole dimensioni di altissimo contenuto. Opere dissimili dai grandi Totem accolti un tempo nello studio di Barasso, dove la moglie Piera Regazzoni, prima di alienarlo per scelta necessaria, amava accompagnare i visitatori nel verde e nella luce attorno al bianco edificio, e ancor più nel nel silenzio, ritmato un tempo, quando Vittorio era lì, dallo scorrere della sgorbia sul legno.
Per venire ad Albino Reggiori, omaggiato a dieci anni dalla morte nella principale sede del museo ceramico di Cerro (fino al 31 luglio) e in altri luoghi d’arte del territorio, va sottolineata la felice scelta dei curatori. Anche qui una devota figlia d’artista, a sua volta figlia d’arte, la bionda -e occhiazzurrina, come il padre- Angela. E l’ attenzione amicale di due amici altrettanto devoti, Luigi Barion, collezionista innamorato dell’arte, e Luigi Sangalli, fotografo e raffinato gallerista di Arcumeggia. E ancora la complicità femminile espressa dall’affabile semplicità e competenza della nipote di Salvini, Anna Visconti, che nel mulino-museo di Cocquio Trevisago ospita per l’occasione le opere pittoriche di Albino, le cattedrali che solo lui poteva fare così sue, con quelle guglie dello spirito che sembrano innalzare fino all’orlo del cielo le umane preghiere.
Altra complicità al femminile è stata offerta ad Angela da Sara Bodini, viso di cammeo che pare uscito dalle mani di Floriano, e importante tramite per l’allestimento di altre tra le ceramiche di Reggiori nel museo di Gemonio che porta il nome del padre.
Vanno considerate anche le opere giovanili presenti per l’occasione alla biblioteca di Laveno, i disegni nel museo di Caldana, le acqueforti allo Studio Almiarte di Gemonio e, infine, il commosso ricordo alla Sangalleria di Arcumeggia: dove Luigi Sangalli presenta fotografie, animate da squarci di vita familiare e professionale, e altre opere di collezione privata.
C’è infine un altro artista dell’oggi di cui merita parlare, Giovanni Beluffi, presente a Busto, a Palazzo Marliani Cicogna, in occasione di una recente rassegna primaverile ” ArtisticaMente in Valle Olona”, curata da Ettore Ceriani, che ha riscosso grande successo. Beluffi è un artista di tanta gentilezza e umiltà, quanto è il talento. Un talento, pluripremiato, e già riconosciuto dai più anziani maestri come Spaventa Filippi, che lo apprezzava e consigliava, ma anche dai colleghi contemporanei.
Beluffi, nato a Brescia, studente di agraria a Cremona, ma che può ormai dirsi, a pieno titolo, figlio del Seprio, rivela proprio nelle sue ultime opere tutta la personale storia, umana e professionale. L’ultimo omaggio ė dedicato alla Valle dell’Olona, e chi la conosce, qui la riconosce e la può ripercorrere non senza emozione, tra scorci di opifici dismessi, di tessiture e cartiere abbandonate, come cattedrali vuote nel suo ventre umido : il milieu che Beluffi vede, e in cui si immerge, è quello di una natura benefica che attorno continua a germogliare e verdeggiare, e non smette di raccontarsi nei ciottoli del fiume o nelle distese smeraldine dei suoi prati immensi, evocando leggendarie atmosfere che al Seprio fanno da sempre corona. Beluffi è a sua volta artista capace di attraversare la vita con la forza del coraggio, come fu per Tavernari e Reggiori. Tavernari ricordava gli anni delle difficoltà, degli stenti iniziali della sua vita d’artista, come i più belli. Reggiori ha ricominciato la sua vita di artista, dopo il lavoro alla grande ceramica lavenese, in assoluta umiltà e grande coraggio.
Beluffi ha condiviso la passione per l’arte col lavoro quotidiano, che gli ha dato il concreto e necessario supporto economico, e con Antonella, preziosa compagna e accorta moglie. Lei ne sostiene le scelte di vita, soprattutto conosce ogni sua opera, sente e conta ogni respiro dei quadri di lui. Si colgono nei disegni a grafite, come nei grandi acrilici su carta e tela, allusioni colte e ben riuscite a Fontana, artista a lui caro, a Morlotti, e, da ultimo, nell’evoluzione che lo porta a smaterializzare via via il cromatismo giovanile, alle atmosfere velate di Turner. Ha scritto in proposito Ceriani: “ La soglia che Beluffi ha ormai varcato è quella del profondo mare dell’interiorità, dalla quale, parafrasando Marquez, si emerge ogni volta con un mazzo di carte segrete, che alimentano una lirica naturalistica in cui le pennellate, sottili ma penetranti, si tramutano in poesia”.
Bene dunque, per concludere la nostra chiacchierata, se gli importanti eventi artistici di Milano continuano ad attrarre visitatori e possono magari far convergere anche sulla nostra piccola terra uno sguardo interessato.
Ma intanto, proprio per l’interesse all’arte che il capoluogo sa esprimere, continuiamo a tenere d’occhio, a raccontare e ricordare i nostri bravi artisti. E se ancora non li conosciamo andiamoli a cercare nei musei, o impariamo a conoscerli e a seguirli. Ci apriranno le loro case e il loro cuore, i loro affetti condivisi. E ci disveleranno inesplorati mondi, per noi a prima vista inafferrabili.
Se osserviamo con attenzione, nelle loro opere è sempre racchiuso qualcosa di nostro. Sono i domestici paesaggi, quelli geografici ma anche quelli interiori che abitano, riflessi come in uno specchio, le nostre anime inquiete. Anime da sempre avvitate alle visioni molli e illiquidite delle nostre rive, là dove trascorre, e spesso indugia, l’ombra leggera della malinconia.
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