Dopo la conferenza di Roberto Baggio, esperto di gnomonica (la scienza che studia le meridiane), la salita al Sacro Monte si fa più attenta. Perché ora lo sguardo cerca di individuare la posizione delle cappelle rispetto alla luce e alla sua provenienza; perché ora ci si sforza di raccogliere una visione di insieme, che abbracci la Via Sacra tutta, dall’arco d’ingresso fin su, al Santuario in vetta. Perché la sorpresa che ci coglie ad ogni nuova curva, di fronte alla cappella successiva, richiama la disposizione non casuale di ogni santuario. E la mente realizza che quello, proprio quello, è il posto scelto dagli architetti del tempo per erigere un cammino studiato in ogni minimo dettaglio.
Tante volte abbiamo visto, o solo intravisto, la sagoma del Sacro Monte, dalla piana della città o ai piedi del monte transitando per il viale Aguggiari; abbiamo riconosciuto, nei giorni più chiari e nella stagione invernale, quando il cielo è terso e la vegetazione ridotta, quella particolare cappella che si affaccia su un determinato punto della valle.
Ora mi pare di saper cogliere un’immagine più globale della Via Sacra, da secoli parte integrante del paesaggio delle Prealpi varesine. Oggi meglio di ieri, conosco e riconosco un maggior numero di aspetti della mia storia locale. Mi rendo conto che sto rivisitando cose che in fondo ho sempre saputo. Per cominciare, che questo monte sacro è il frutto sia della intelligente volontà di personaggi fortemente coinvolti nella religiosità del loro tempo sia del lavoro di tanti individui di ogni classe sociale, il risultato di un’utopia infine realizzata per l’impegno di tanta parte della popolazione.
La salita acquista un sapore nuovo quando si è accompagnati dalla consapevolezza dei passaggi che si sono resi necessari per giungere a offrirci il Sacro Monte così com’è.
Nelle case dei varesini, come nella mia, ne sono certa, giacciono numerose pubblicazioni prodotte sulla Via Sacra, ricevute o acquistate negli anni. Le copiose notizie storiche lì contenute le conoscevamo già ma dopo la conferenza ci tornano alla memoria rivisitate e mediate dalla passione di Roberto Baggio, che inizia a parlarci del senso del tempo e della sua misurazione, dal lontano Seicento, per condurci ad un itinerario virtuale (si direbbe oggi) nel tempo e nello spazio.
Baggio illustra il valore delle meridiane collocate lungo il percorso, racconta i ritmi del tempo cronologico di secoli fa, scanditi dal sole nei diversi momenti della giornata, trascina nelle ore regolate dalle sole campane delle tante chiese, delle lunghe notti rischiarate solo dalla luna.
Abituati agli orologi digitali, ai cronometri, ai cartellini da timbrare al lavoro, ci riesce difficile penetrare il senso di un tempo giornaliero basato sul sole quando c’era, o sulla luce del breve giorno nel periodo invernale. Le meridiane erano poste dovunque; piccoli capolavori artigianali affrescati sui muri delle chiese, delle case, sulle pareti delle cappelle: da interpretare per ricavarne l’ora, ancorché imprecisa perché basata sugli spostamenti del sole; ora variabile a seconda della stagione, la cui lettura richiede a noi moderni un vero sforzo mentale.
Seguendo il filo del discorso riesco a mettere a fuoco l’immagine di un gruppo di pellegrini del Seicento che attraversano l’arco di ingresso alla Via Sacra; si fermano dopo pochi passi per leggere, dalla meridiana posta sulla parete laterale della seconda cappella, di quante ore di luce dispongono. Devono capire se avranno il tempo di avventurarsi verso la vetta del monte per poi ritornare a valle prima del buio. Infine decidono di avviarsi; la piccola folla si ferma davanti ad ogni cappella, ne scruta l’interno mentre ascolta le spiegazioni del frate che li accompagna.
Loro non sanno, come noi oggi, che è stata la conoscenza dell’astronomia, lo studio del cielo e degli astri, a determinare la disposizione dei quattordici santuari lungo il percorso, costruiti rispettando la progressione delle parti del Rosario e insieme le variazioni della luce nei diversi momenti della giornata.
Gli ideatori, architetti, ingegneri, capomastri – le “archistar” del tempo – hanno studiato la configurazione del territorio, misurato le pendenze, valutato l’impatto della luce all’alba e al tramonto. Erano consapevoli dell’impatto di ciascuna costruzione sullo spazio occupato.
Quanta luce può o deve filtrare all’interno di ogni cappella risulta da un attento esame del cielo e delle rotazioni degli astri. Anche le statue devono rispettare il volere del “regista” che le ha collocate in modo che colpiscano il visitatore apparendo al suo sguardo secondo l’ordine gerarchico stabilito dalle sacre scritture.
Non è un caso che il Cristo crocifisso, innalzato tra una folla incredibilmente composita di personaggi all’interno della X cappella, durante la Settimana Santa riceva un fiotto di luce calda nelle ore del pomeriggio cosicché, quando sarà venerdì, nell’ora della morte di Gesù, il pellegrino resti profondamente turbato dalla lama di luce che ne sfiora il costato. I costruttori avevano calcolato che, poiché la Pasqua coincide con i tempi dell’equinozio di primavera, infatti si celebra la domenica successiva alla prima luna piena, la scena teatrale della crocefissione poteva contare sulla presenza di quella particolare luce primaverile.
Alla sesta Cappella, altro esempio, è rappresentato Gesù nell’orto degli Ulivi e in origine, secondo la ricostruzione offerta da Baggio, dalla finestrella in alto, la sera del Giovedì Santo la luce della luna poteva entrare a illuminare la scena di Cristo che riceve il calice dall’angelo.
La XIII cappella, a pianta ottagonale, unica nel suo genere lungo questa Via Sacra, pare sia stata ideata per illuminare da ogni lato, e per tutto il giorno, l’interno della cappella che rappresenta la scena della discesa dello Spirito Santo sotto forma di fiammelle sul capo degli apostoli.
Il pensiero oggi corre grato a coloro che hanno contribuito a rendere unico questo posto
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