«Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.»
Così è scritto al secondo comma dell’articolo 75 della nostra Costituzione. Ancora una volta, ci sembra di poter affermare che i nostri padri costituenti furono lungimiranti.
La possibilità di introdurre l’istituto del referendum fu all’ordine del giorno dei lavori della seconda sottocommissione dell’Assemblea costituente, quella che si occupò dell’Ordinamento costituzionale della Repubblica. Relatore del progetto fu Costantino Napoleone Mortati, giurista di origine arbëreshë (cioè, calabro-albanese), che, dopo la caduta di Mussolini, fu spinto da Dossetti ad entrare nella nascente Democrazia cristiana. Mortati prospettò due diverse ipotesi di referendum nel corso della seduta del 17 gennaio 1947 (era un venerdì e la seduta iniziò alle 17,45). Durante il dibattito, Luigi Einaudi dichiarò che «in linea di principio il referendum deve essere ammesso, perché è un correttivo del sistema della rappresentanza con un elemento della democrazia diretta». Aggiunse anche che il successo di un referendum sarebbe stato determinato dalla «formulazione dei quesiti che si sottoporranno al popolo»: «un referendum significativo deve essere raccolto su una domanda chiara ed univoca, alla quale si possa rispondere solamente con un “sì” o con un “no”».
Nell’Italia di allora, venuta fuori da una lunga stagione di plebisciti, il ricorso ad uno strumento come quello del referendum poteva suscitare legittimi timori. L’azionista Emilio Lussu, ad esempio, nella seduta del 20 gennaio, affermò di aver riconsiderato le sue iniziali posizioni sull’argomento in discussione: un referendum su una legge approvata dal Parlamento avrebbe potuto generare contrasti tra il popolo ed i suoi rappresentanti. Sostenne, pertanto, che sarebbe stato meglio consentire il ricorso a quell’istituto giuridico in un ambito regionale o comunale, ma non in quello nazionale.
Ai timori espressi da Lussu, Mortati rispose nel corso della stessa seduta. A suo avviso, il Parlamento avrebbe anche potuto legiferare non riflettendo esattamente la volontà popolare. L’espressione diretta di una volontà popolare avrebbe potuto avere, in questo caso, il valore un efficace e sano correttivo. Del resto, aggiunse, se «si ammette che la sovranità risiede nella volontà del popolo, […] allora si dovrà anche ammettere il veto popolare mediante referendum».
Dopo una lunga discussione, il repubblicano Tomaso Perassi propose alla sottocommissione che non potessero essere oggetto di referendum le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali come pure le leggi di bilancio.
Quando, il 16 ottobre 1947, l’Assemblea costituente, in seduta plenaria, esaminò quanto elaborato dalla seconda Sottocommissione, fu approvata con larga maggioranza, ma dopo un lungo e serrato confronto, la formula del referendum abrogativo. Non vi furono particolari discussioni in merito alle eccezioni previste dal secondo comma citato.
Il referendum, credo, è uno strumento delicato. Soprattutto in un tempo in cui la velocità della comunicazione e la capacità seduttiva dei media alimentano i nostri umori senza offrire argomenti convincenti. Sui social network, dopo il 23 giugno scorso, tutti sono diventati esperti di Unione europea, di finanza internazionale e di questioni monetarie. Tutto si è consumato in affermazioni apodittiche che non consentivano repliche: euro sì, euro no; fuori dall’Unione europea; dentro l’Unione europea. Ed anche l’élite politica, che un tempo ci aiutava a capire, assecondando i media cui si affida, si abbandona oggi a messaggi o a slogan (che possano avere il respiro sintattico di una frase da stampare su una felpa o da contenere in un tweet), rifuggendo dal tempo lungo e disteso e pacato del discorso e del ragionamento.
Il risultato? Il risultato è che dal 24 giugno una buona parte dei cittadini britannici si chiedono se forse non sia il caso di ritornare a votare. In molti dicono ora: abbiamo sbagliato; non avevamo capito bene. E da noi, nel prossimo ottobre, si consumerà un referendum che non richiederà necessariamente la conoscenza della riforma costituzionale approvata dal nostro Parlamento, ma si risolverà in un sondaggio di opinione su Matteo Renzi.
Ed io? Ed io, per ristorarmi, provo a leggere, lentamente, i resoconti stenografici dei lavori dell’Assemblea costituente. Quando i deputati discutevano anche di venerdì e di sabato.
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